Il paese di S.
Il paese di S. sorge, da più di mille anni, sul lato nord dell’appenino ligure.
Da sempre centro di scambi tra la bassa e la costa: percorso di sale e di carbone di legno e di mattoni, di funghi e di branzini, e di migranti ora su ora giù lungo l’antica strada.
Sede di schole ecclesiastiche e di fieri cittadini repubblicani.
Sempre in lotta, ora contro, ora a favore della repubblica di Genova.
Paese strano, sempre controcorrente, ma sempre attento ai propri interessi: nei primi del settecento decide di costruire una chiesa, anzi un duomo, ma i mattoni costano cari e portarli da Savona non conviene e allora si costruisce una fornace, tanto il legno abbonda e si sfornano mattoni su mattoni, più di quanti ne occorrano ed il surplus lo si vende e si fanno soldi su soldi.
E con quei soldi si comprano i servigi, se non dei migliori, dei secondi artisti: pittori, scultori, decoratori, maestri nell’arte degli stucchi e chiunque dietro degno compenso possa abbellire la gloria del loro duomo.
Duomo che sarà occupato dai nazisti nella seconda guerra mondiale ed adibito a deposito di legname.
Truppe infreddolite spaccavano ciocchi di legname sui marmi delle tombe dei parroci defunti.
Poi il boom degli anni 60: le case che si vendevano come il pane ai cittadini arricchiti che pur di avere un pezzo di giardino sborsavano cifre esorbitanti.
Finite le case fu la volta delle cascine e poi dei fienili, infine del terreno edificabile: Vuoi la casa in campagna: costruiscitela...
Fu un periodo di ubriacatura generale i soldi zampillavano ovunque, bastava raccoglierli e tutti volevano raccoglierli.
Quindi bar e pizzerie, campi da tennis ed alberghi, fruttivendoli, panettieri, pasticcerie, e rivendite di funghi ovunque, in stagione e anche non.
Ma ovviamente non poteva durare e non durò.
Pian piano il grande fuoco divenne una fiammella.
Anche mio padre non seppe resistere alla tentazione.
Era forse il 1965, io avevo all’incirca 10 anni.
Dopo una allegra giornata al mare, stressati dal caldo di un giugno particolarmente afoso i miei genitori decisero per una puntata rinfrescante all’interno verso l’appennino.
Imbarcati me, mia sorella, di quattro anni più giovane, la mamma e le masserizie varie che ci accompagnavano nelle nostre gite, e che sarebbero state sufficenti ad allestire un campo profughi di medie dimensioni, nella capiente “Ford Taunus Station Vagon” che proprio un vagone sembrava tanto era grossa, facemmo rotta verso il verde appennino.
Il progetto credo fosse di trovare una trattoriola verace dove cenare, per poi, con calma, riprendere la via della città quanto il traffico si fosse ridotto, ritorno intelligente ante litteram.
Ma si sa l’uomo propone e dio dispone.
Il Dio minore, che in qualche modo cambiò il percorso della nostra vita, si materializzò sotto forma di un capriolo che tagliandoci la stada costrinse mio padre ad una bruschissima frenata.
Essendo nella bella Italia, che prendeva per il culo i tedeschi che viaggiavano infagottati nelle cinture di sicurezza, la frenata non fu priva di conseguenze.
Mamma e papà erano illesi ma io sanguinavo dal naso per la botta presa conto lo schienale del sedile anteriore e mia sorella frignava per non si sa quale contusione.
E siccome le disgrazie non vengono mai da sole la station wagon aveva lo pneumatico anteriore destro squarciato.
Il capriolo in compenso era illeso e ci guardava stupito dall’altro lato della carreggiata.
Eravamo in aperta campagna, mentre la mamma mi tamponava il naso, e consolava mia sorella il babbo, da navigato comandante, aveva preso la decisione.
“abbiamo appena passato il paese di S.” Disse” Potremmo tornare indietro e fermarci in un bar a sciacquare la ferita di Danilo e rifocillarci ,ma sarà più di un chilometro a piedi sotto il sole.”
“invece su quella collinetta vedo una casa aperta, ci arriviamo in cinque minuti, non ci rifiuteranno un pò d’acqua.”
Poi rivolto a me” Che ne dici capitano pensi di farcela?”
Io in realtà a parte lo spavento alla vista del sangue, non provavo alcun dolore.
Assunsi un’espressione che avrebbe voluto essere ad un tempo sofferente ma determinata, tipo vecchio soldato che non molla mai, e risposi.
“Sono sicuro di farcela”
“E voi principesse?” riprese rivolto a mia madre e mia sorella.
“Certo andiamo, direi che Gabriella non ha nulla a parte lo spavento” rispose la mamma.
Raggiunta l’unanimità, dopo aver accostato l’auto al ciglio della strada, ci avviammo.
La casa si rivelò un villino a due piani immerso nel verde.
Al cancello spiccava un grosso cartello rosso in cui era scritto “Vendesi ultimi lotti”
Mentre mi scervellavo per capire cosa potessero significare quelle parole mio padre scuoteva il campanaccio appeso al cancello.
Se c’era qualcuno nel raggio di 10 chilometri avrebbe saputo del nostro arrivo.
Qualcuno c’era e molto vicino.
Un signore dal volto rubizzo in abiti da città venne ad aprirci il cancello e si mise subito a parlare con papà.
Cinque minuti dopo eravamo sistemati in un soggiorno luminoso, il mio naso tenuto a lungo sotto l’acqua corrente non sanguinava più, mia sorella scorazzava da una finestra all’altra per vedere il panorama e mia madre, donna previdente, stava spalmando di marmellata alcune fette di pane che aveva estratto dal cestino da pic nic che si era trascinata dietro dalla macchina.
Quando mio padre rientrò col nostro ospite eravamo tutti e tre impegnatissimi a divorare pane e marmellata spargendo briciole ovunque.
Subito mia madre si scusò col padrone di casa per l’invadenza ed il disordine.
Quello fece un sorriso, ed indicando mio padre, disse: “Si scusi con questo signore, è lui il padrone di casa ora”
E fu così che divenimmo proprietari di un pezzetto del comune di S.
Amai quella casa e quel giardino ed i boschi circostanti per tutta la mia infanzia e la preadolescenza.
Era una casa aperta e quasi sempre avevamo ospiti.
Parenti amici, amici degli amici.
Il massimo era quando venivano a trovarci i cugini da Rimini e si fermavano qualche tempo.
Danilo, Gabriella, Eros, Davide e Gloria.
Mai banda di sciamannati più scombinata aveva battuto quelle campagne.
Che nostalgia per quelle lunghe giornate estive di ozio operosissimo, per quella stagione che sembrava non dovesse mai finire ed invece tutto ad un tratto ti ritrovavi in città seduto al banco di scuola e non riuscivi a capire come accidenti potesse già essere autunno.
Quanto avevo amato quella casa da ragazzo tanto la odiai da adolescente quando ero costretto a rinunciare alle vie del mondo perchè non ancora maggiorenne ed a rinchiudermi in quell’angusto giardino.
Appena potei fuggii dal luogo dei giochi infantili per tuffarmi nella confusione del mondo oltre il giardino.
Per anni vi tornai di sfuggita solo per una breve visita ai miei genitori.
Poi quando nacque mio figlio, ripresi ad amarla ed a frequentarla
Mia moglie e mio figlio vi trascorrevano le estati ed io li raggiungevo nel week end e mi fermavo durante le ferie
Costruii la casa sull’albero, che non avevo mai avuto, per mio figlio e credo anche lui ricordi con amore quel periodo.
Le gite le feste, la raccolta dei funghi, quando uscivamo che era ancora buio per tornare all’ora di pranzo spesso con un cospicuo bottino.
Poi anche mio figlio è cresciuto ed ha avuto lo stesso rifiuto.
Nel frattempo tante cose sono successe, mia madre è morta, mio padre è diventato cieco io ho chiuso l’attività.
Ed eccoci ai giorni nostri ed alla piccola storia che vi voglio raccontare.
La casa esiste ancora ma sono anni che non è più frequentata.
Vado una o due volte l’anno a prendere la numerazione dell’acqua o del contatore elettrico.
A vedere se è sempre in piedi, lo è ma sente il peso degli anni.
Oggi con mia moglie, mio figlio e mio padre siamo qui a S., siamo venuti per separarci per sempre da lei.
Siamo appena stati all’agenzia immobiliare dove l’abbiamo messa in vendita.
Pare che il mercato sia inflazionato, tutti cercano di vendere ed il nostro villino è messo maluccio come manutenzione.
Abbiamo dovuto calare parecchio sul prezzo ma daltronde quei soldi ci servono.
Ora al tavolino della gelateria della piazza centrale ne stiamo ancora discutendo.
Come ai vecchi tempi campari soda per noi tre e gelato per mio figlio michele che ormai ha 18 anni e potrebbe benissimo farsi un Campari, ma la tradizione è quella.
Ammicca quando pesca il gelato usando come cucchiaio una patatina fritta, come ai vecchi tempi!, sembra dirmi il suo sguardo.
“Tutto come ai vecchi tempi” mi apostrofa Martino il titolare, nonchè cameriere, gelataio, banconiere e anima del bar Centrale.
“Già, quasi” rispondo io.
Ma Martino stà già salutando mio padre, scaruffando i capelli a Michele e facendo il galante con mia moglie, il tutto contemporaneamente.
Dopo i convenevoli ci chiede come mai dopo tanto tempo lo onoriamo della nostra presenza.
Con Martino ci conosciamo fin da ragazzi quindi senza menare il can per l’aia gli racconto che siamo alla canna del gas, ci servono soldi e subito per sopravvivere.
Martino mi ascolta interessato e serio, poi prende una sedia e si siede di fronte a me.
“Posso unirmi alla tavolata?”
“Ma certo Martino fai come fossi a casa tua” risponde mio padre sorridendo”
Martino mi guarda negli occhi a lungo poi quando ormai penso gli sia preso un ictus parla:” Danilo, ti faccio una proposta che non puoi rifiutare e che ti cambierà la vita”
Martino è un personaggio così, poliedrico, sempre iperattivo, capace di sparare mille parole al minuto ma quella volta nel suo sguardo c’era un intensità che non conoscevo.
“Dimmi tutto” risposi.
“Allora” lunga pausa in cui pensai stava raccogliendo le idee”Devi conoscere Don Firmino Lavizzari”
Ora, tra proposte che non puoi rifiutare e la conoscenza di un non meglio specificato Don, mi sembrava di essere precipitato nella provincia palermitana.
Mi avrebbe chiesto di gambizzare qualcuno o di riscuotere il pizzo dai negozianti del paese?
“Spiegati per favore Martino, chi è stò Don e qual’è la proposta che non posso rifiutare?” risposi.
“Il Don è il parroco no? Tu fai sempre il restauratore no? Ed hai bisogno di soldi no?”
“Di ancora una volta no? E ti uccido”
“No” disse Martino sorridendo, sorrisi anche io.
“Senti Martino sai che noi comunisti non amiamo molto la chiesa quindi o ti spieghi....”
“Danilo il Don è diverso vedrai che vi trovate, avete almeno due cose in comune”
“ E quali sarebbero?”
“Entrambi odiate Berlusconi ed amate il vino buono”
“Ed in più il parroco deve restaurare 25 lampadari del duomo”
Il colpo era ben sotto la cintura e lo accusai.
“Martino quando si può parlare col parroco?”
“ Anche subito mi tolgo il grembiule e ti accompagno in canonica ma....”
Avevo la testa che mi ronzava, venticinque lampadari, almeno 6.000 euro di lavoro, la manna giunta dal cielo, ma c’era un ma.
“Ma cosa?”
“Ma prima devi almeno dirmi grazie no?”
Lo ringraziai un milione di volte, dopodichè ci incamminammo verso la canonica.
“E tua sorella che fine ha fatto?”
“E’ in Giordania, suo marito ha attenuto un posto di lettore all’università di Amman”
“A bella Amman ci siamo stati l’anno scorso in gita con il Don”
“Ma stai scherzando?”
“No davvero, abbiamo trovato un pacchetto economicissimo, l’anno prima siamo andati a Gerusalemme, comunque eccoci arrivati”
La canonica era un corpo unico con il duomo ma leggermente arretrata e dipinta di un rosa tenue cosicchè si capisse che era solo un’abitazione e non un luogo di culto.
Il duomo era invece imponente con le sue sei colonne di arenaria che reggevano un frontone di uno stile indefinibile, a destra stava la canonica ed a sinistra un campanile altissimo sormontato da una croce di ferro, ancora non lo sapevo ma quella croce mi avrebbe salvato la vita. Ma non anticipiamo i tempi.
Alla terza scampanellata priva di riscontro Martino disse: “Strano, non risponde, a quest’ora in genere è sempre in canonica ma che scemo sono, sarà nell’orto no”
Ci fece segno di seguirlo, aggirammo la canonica e ci trovammo di fronte ad un portale a sesto acuto tipicamente medioevale.
Martino tirò la cordicella del saliscendi ed entrammo.
Fu un piccolo passo per noi umani, fisicamente avevamo percorso un paio di metri scarsi, ma temporalmente direi all’incirca un millennio.
L’orto come lo chiamava Martino, sembrava uscito da una miniatura dell’anno mille.
Al centro il pozzo di pietra corrosa dagli anni e tutto intorno a cerchi che si allargavano alberi da frutta e viti aggrappate a tralicci che dovevano già essere vecchi al tempo della prima crociata.
Una meridiana di pietra del diametro di circa tre metri inclinata veso sud ci comunicava che era mezzogiorno, concetto ribadito pochi istanti dopo dal campanile del duomo.
Il profumo, i profumi erano talmente intensi da stordire, il frinire delle cicale mi riempiva la testa, cercavo di spiegare a mio padre lo spettacolo che avevamo di fronte, lui annuiva, anche senza vedere percepiva quel senso di maestà che solo la natura può comunicarci.
Martino ci guardava di sottecchi, lui sapeva, lui lo aveva visto tante volte e probabilmente godeva di averci reso partecipi di quel segreto.
“Manca solo che spunti Guglielmo da Baskerville fra le fronde”
E, come evocato dalle mie parole Guglielmo spuntò.
“Ciao Martino, chi mi hai portato di bello oggi”
La somiglianza con il Sean Connery nel film tratto da “il nome della rosa” era impressionante.
“Buongiorno Don” dissi
“Buongiorno a te capitano, ed alla tua famiglia”
In quel momento capii che mi era stata fatta una proposta che non avrei potuto, ne voluto rifiutare, capii che era nata un’amicizia che si sarebbe sciolta solo con la morte di uno dei contraenti e purtroppo andò a finire proprio così.
Tempo dopo, quando eravamo ormai amici, chiesi al Don come poteva sapere che “Capitano” era il soprannome con cui mi chiamava mio padre quando ero piccolo.
“Potrei raccontarti che le vie del signore sono infinite ed imperscrutabili” rispose “Ma non mi crederesti, semplicemente vedendoti stagliato sul portone così alto pelato,coi calzoni neri e la camicia bianca mi hai ricordato il capitano di un film di cappa e spada che ho visto da giovane”.
“Forse avrei creduto più facilmente a quella delle vie del signore”
Risposi.
Dopo aver fatto le presentazioni il Don andò subito al punto.
“Vedi Danilo, non ti spiace se ti do del tu vero?”
“Certo che no” risposi”
“Bene, il fatto è che una pia donna, morta il mese scorso, alla ragguardevole età di novantotto anni, ha lasciato alla parrocchia una discreta somma di danaro per il lustro ed il decoro del nostro splendido duomo, ha scritto proprio così nel testamento.
Ora come ti avrà già detto Martino abbiamo venticinque bellissimi lampadari ma ne funzionano solo sei ed anche quelli temo abbiano le ore contate. Saresti in grado di ripararli?”
“Dovrei vederli” dissi ”ma ho passato quindici anni a riparare e restaurare lampade e lampadari quindi una qualche esperienza ce l’ho”
“Bene allora andiamo a vederli, vi faccio strada” Così dicendo il Don si avviò, attraversando il giardino, verso una porticina dipinta di un anacronistico azzurro che ricordava le porte delle case dei pescatori greci.
Da quella porta entrammo in canonica, attraversammo l’ampia cucina dominata da una stufa in ceramica di una bellezza sconvolgente e che doveva risalire ad occhio a metà dell’ottocento e attraverso un’ altra porta, questa volta marrone, entrammo in duomo.
Per inciso, tempo dopo, quando potei osservare più attentamente la stufa mi resi conto di aver preso, come spesso ai restauratori capita, una cantonata.
Sulla stufa era inciso ancora leggibilissimo “Ignatio Badan fecit 1798”
Azz, altro che metà ‘800 !
Il duomo era uno spettacolo, un’unica enorme navata barocca scintillante di ori e marmi.
L’avevo gia visitata alcune volte da ragazzo ma non la ricordavo così ricca ed affascinante.
Ma soprattutto non ricordavo i lampadari.
Quando Martino me ne aveva parlato mi ero fatto un’immagine mentale di 25 lampadarietti Luigi XVI a 6 luci, quelli che ti aspetti di trovare in una chiesa di campagna.
Ma quella non era una chiesa di campagna, era il duomo di una comunità molto ricca ed operosa.
I sedici lampadari di taglia più piccola erano dei Luigi XVI a otto fiamme col fusto in legno intagliato e dorato i bracci in ferro dorato adorni di una miriade di catene di cristalli in parte di rocca, in parte di bohemia che sembrava fossero state lanciate con la fionda e li lasciate a raccogliere la polvere dei secoli.
Disposti in due file di otto, pendevano da una balaustrata posta all’incirca ad una quindicina di metri dal pavimento.
Avvicinandomi al presbiterio finalmente capii in cosa consisteva la sfida, a coppie giustapposte pendevano nell’ordine due Luigi XVI a due palchi da 18 fiamme l’uno, due lampadari di murano sicuramente pre ottocenteschi con il fusto in legno dorato da ventiquatto fiamme l’uno, due Luigi XVI a dodici fiamme, due Murano a dodici fiamme, ed in fine altri quattro Luigi XVI a dodici fiamme.
“Martino se la matematica non è un’opinione io ne conto ventotto non venticinque” dissi, non era un’osservazione molto acuta, ma in quel momento non avevo trovato di meglio per rompere il silenzio che si era creato mentre attraversavamo la chiesa con lo sguardo all’insù.
“Ma i primi quattro dall’ingresso li abbiamo fatti riparare l’anno scorso e funzionano”.
“Allora sono ventiquattro”
“No il venticinquesimo è in sacrestia, seguimi e come fosse il padrone di casa mi trascinò oltre una porticina.
La sacrestia era completamente rivestita da una boiserie di legno scuro legno scuro, probabilmente rovere tinto, nel quale erano incastonati due grossi armadi piemontesi ed uno scrittoio a ribaltina in stile barocco francese che però non stonava per nulla con l’arredo.
Dal centro del soffitto pendeva una grossa lampada votiva sornontata da uno splendido vetro soffiato di forma ogivale.
La Luce proveniva da una coppia di appliques in bronzo dorato al mercurio e da una finestrina di veti policroni legata a piombo Rappresentante S.Rocco con il suo cane.
“E’ dall’atro ieri che non funziona, abbiamo chiamato l’elettricista ma figurati, siamo in stagione, con tutte le ville aperte non ha un momento di tempo”
“Hai provato a cambiare la lampadina?”
“Meno male che esisti, che stupido sono non ci avevo pensato, sai io sono un campagnolo mica un cittadino imparato come te”
Fece una pausa e mi sorrise sardonico “Certo chè ho provato è la prima cosa che ho fatto”.
“Ok scusa, dov’è l’interruttore?” Mi vece un gesto vago verso il lato sinistro della porticina.
“Questo non è un interruttore è un pulsante, il lampadario si accende anche da qualche altro punto ?”
“No, che io sappia no”
“Quando funzionava faceva un tack all’accensione?”
“Si, mi pare proprio di si”
“Bene ora ti faccio vedere una magia da capitano e ti dimostro che i lampadari sono ventiquattro”.
Estrassi il mio cacciavite cercafase che porto sempre con me come portachiavi ed iniziai a smontare il pulsante, avevo il 50% per cento di probabilità, avrebbe anche potuto essere il relais, ma in genere nelle piccole cose sono fortunato, è in quelle grosse che la sfiga mi usa come test della vista.
Come immaginavo il filo nero era staccato, lo rimisi a posto e chiusi, poi con un “tadan” pigiai il pulsante, e la luce fu.
Quando tornammo nel duomo, tra il Don ed i miei familiari, ferveva il dibattito politico ma in realtà era una dicussione in cui tutti i partecipanti avevano, sia pure con sfumature diverse, la medesima opinione riassumibile in quattro parole anzi, in tre parole e mezza: Berlusconi è uno str....( Sapete tengo famiglia e mi ci manca solo una querela per vilipendio al nano asfaltato).
“Allora Don” esordì Martino “Il lampadario in sacrestia è a posto ora potremmo parlare degli altri ventiquattro”
“Bene Capitano, se ne ripari uno ogni dieci minuti, direi che per doman sera il lavoro è finito” disse il Don ridendo.
“La vedo leggermente più difficile, ad occhio e croce direi che ci vorranno tre o quattro mesi, se tutto va bene, ma per fare un preventivo di tempi e costi ci devo pensare su’ un po e fare due conti”
“ Pensaci quanto vuoi ma per Natale vorrei averli finiti, in quanto al costo Martino mi dice che sei onesto quindi mi fido. Ma ora” disse levando in alto il braccio destro “E’ ora di pranzo e non amo tardare a questo importante appuntamento, avessi saputo avrei fatto preparare anche per voi ma Martino mi fa le improvvisate”
“Don non ho la palla di cristallo” rispose Martino piccato.
“Facciamo così” dissi “Mi prendo un paio di giorni poi chiamo Martino e ci diamo un appuntamento qui, ovviamente non in ora di pranzo”
“Affare fatto” rispose subito il Don “ Ma ci vedremo proprio in ora di pranzo se mi avverti in tempo. Si parla meglio con le gambe sotto al tavolo, davanti ad una buona bottiglia e ad un piatto di cinghiale in umido. Ora vado che sono già in ritardo, serena giornata a tutti. Li accompagni tu Martino?” detto questo si avviò a grandi passi verso la canonica.
Quando fu oltre la porta commentai “ Che tipino !”
“E non l’hai visto al massimo” chiosò Martino “Andiamo che anche io ho un certo appetito”
Certo che l’aria di campagna mette fame....
Il viaggio di ritorno verso Genova fu un accavallarsi di commenti e risate, in effetti il Don era un personaggio ed anche Martino,che conoscevamo da anni, appariva in una nuova luce, e poi la prospettiva finalmente di un lavoro duraturo mi metteva di buon umore.
La sera davanti al pc tentai un ipotesi di preventivo, ma era un’impresa impossibile, avevo troppo pochi dati, quindi chiamai Martino: “Ciao Martino, che ne dici se domani vengo sù e prendo un pò di misure e faccio qualche foto? Ho troppo pochi elementi per fare un preventivo credibile.”
“Benissimo” mi rispose “ ma ti conviene venir sul tardi, che c’è un funerale alle 11”
“Ok, vengo per le quattordici, va bene? A proposito chi è morto?”
“Non credo tu lo conosca, Bastianino Rossi lo chiamavano l’Amo”
“Certo che lo conosco, non è il padre del macellaio, quello curvo come un punto interrogativo?”
“Certo, per quello lo chiamavano l’Amo no? 92 anni, la sua parte l’ha fatta”
“Già, a domani allora”
Me lo ricordavo bene Bastianino quando da ragazzino andavo a comprare nella sua macelleria-salumeria, era giovane ma già un pò curvo, sempre gentile e cerimonioso, elegantissimo con la sua camicia bianca sotto la cappa e l’immancabile cravatta a farfalla. Ricordo che tagliava il prosciutto crudo con la cura di un chirurgo coscienzioso che eseguisse un’operazione a cuore aperto.
Finito di tagliare pesava l’involto e dopo, solo dopo, aggiungeva una manciata di olive nere sul salume affettato:”Queste sono omaggio” diceva ogni volta ”mica le ho pesate” e mi sorrideva.
Lo avevo rivisto sporadicamente negli anni sempre più curvo, ma sempre di buon umore, si aggirava nella macelleria gestita dal figlio, senza un compito preciso, se non quello di occupare il tempo.
Pensando a lui mi venne in mente un aneddoto che mi aveva raccontato mio nonno, tanti anni prima e che evidentemente avevo rimosso.
Si era a Rimini, al funerale di non ricordo quale parente, io avrò potuto avere una dozzina d’anni, dopo la messa nel sagrato della chiesa i convenuti parlottavano fra loro aspettando l’uscita del feretro.
Io ero affianco al nonno Gigi, mentre i mie genitori salutavano parenti che non vedevano da anni.
Il nonno, vecchio pescatore, col viso bruciato dal sole guardava per terra con espressione assorta, a me incuteva molta soggezione anche perchè di lui si narravano storie cruente di quando partigiano pare avesse fatto fuori due tedeschi armati di mitra col solo suo coltello da pesca.
“Vedi burdel quello” disse indicando la chiesa ed alludendo al morto “era un federale, un coglione ed un patacca. Da giovane ha dato da dire con tutti, e credo ne abbia mandato in galera parecchi, io mi sono salvato perchè eravamo parenti”
Sputò per terra come a sottolineare che di certe parentele avrebbe fatto volentieri a meno.
“Quando c’era il Duce, che il diavolo se lo tenga, era alto e dritto come un fuso,parlava forte e dava soggezione a tutti, poi dopo la liberazione è venuto in ginocchio a pregare che non aveva colpa, che lo ordinavano così, “
Il tempo sembrava essersi fermato, non sentivo le voci di chi mi stava attorno, sembrava che sul sagrato ci fossimo solo io ed il nonno, cercavo di immaginarmi cosa dovesse essere stato quel dopoguerra.
Il nonno riprese:“Giastima, mi diceva, io ti ho sempre protetto quando potevo ora mi devi aiutare tu”
Giastima, in dialetto Bestemmia era il nome da comandante partigiano di mio nonno e questo la dice lunga sulla sua storia.
“Giastima, se non mi salvi tu io sono morto, giuro che mi pento e starò sempre a capo chino davanti a tutti perchè ho sbagliato. L’ho salvato. Non se lo meritava ma l’ho salvato.”
Tacque, io cercavo di assimilare ciò che avevo sentito.
Poi riprese:”Da quella volta girò sempre a capo chino, sempre più piegato verso terra, dicevano che erano le vertebre, ma io lo sò che era la vergogna, settimana scorsa sono andato a trovarlo in ospedale si vedeva che era in fondo, era piegato come un’amo, poteva dormire solo sul fianco, Mi ha detto: Giastima ti chiedo perdono ora che me ne vado, perdonami. Io ti perdono, gli ho risposto, ma devi chiedere anche agli altri quando li incontrerai.
Quando è morto per metterlo nella cassa dicono che gli hanno dovuto spezzare la schiena che sennò non si chiudeva. Non so se è vero, spero di no”
“Speriamo di no” risposi.
Il nonno, quando anni dopo morì, era ancora dritto come un fuso.
Mi rendo conto che questo racconto è una continua digressione, un giardino dei sentieri che si biforcano e sembrano non portare in nessun luogo.Forse perchè ho paura di quel luogo, di quel tempo, e di un fantasma che, dopo cinque anni, aleggia ancora nella mia mente.
Ma abbiate fiducia, ci arriverò e forse ricordando, riuscirò a capire ciò che non ho capito a suo tempo.
Preso l’appuntamento con Martino dovevo organizzare gli strumenti per il sopralluogo, per una volta tanto volevo fare il razionale per cui stilai la lista degli oggetti che mi occorrevano, non era una lunga lista:
Misuratore ad ultrasuoni X
Rotella metrica X
Macchina fotografica ?
La mia si era rotta un mese prima, certo potevo farmi prestare la Kodakina da mia cognata, ma la qualità di quelle macchinette, soprattutto nella mezzaluce di una chiesa,non era proprio l’ideale, e poi presentarmi con una macchinetta così sarebbe sembrato poco professionale.
Sasso, pensai, Steva Sasso poteva salvarmi.
Steva era un vecchio amico dei tempi del liceo, in quegli anni eravamo inseparabili, poi i sentieri della vita ci avevano allontanato, ma le amicizie vere non si rompono mai ed ogni volta che ci reincontravamo, magari dopo anni, era come ci fossimo salutati la sera prima.
Di mestiere da anni faceva il grafico pubblicitario e sicuramente aveva una macchina fotografica seria.
Lo chiamai in ufficio.
“Ciao Steva sono Danilo”
“Ma non eri morto a Leningrado?”
“1997 ,obviously , ma sai, a volte ritornano”
“Questa è talmente banale che non la commento, qual buon vento ti mena verso le mie sponde Capitano?”
I dialoghi con Steva erano più o meno sempre deliranti ma ci capivamo alla perfezione.
“Mi serve un favore Steva, possiamo vederci?”
“Certo, basta non siano soldi, passi in ufficio? io ci sono ancora per una mezzora, poi pausa pranzo”
“Rimani li stò arrivando, terzo piano?”
“Quinto, il portone è il 15, l’interno 18”
“5, 15, 18 Ok me li gioco al Lotto”
“Contro la stupidità neppure gli dei possono nulla”
“Mister Schiller I suppose? Dai arrivo”.
In quel periodo io e la mia famiglia eravamo ospiti in casa di mio padre, perchè avevamo appena venduto la casa e stavamo cercandone un’altra.
Lo so, che prima si trova quella nuova e solo dopo si vende la vecchia, ma ci era capitata un’ottima occasione e l’avevamo colta.
In ogni caso da via Ravasco, sede temporanea a via S. Luca sede dell’ufficio di Steva mi ci vollero solo 5 minuti a piedi
Altrettanto ci mise l’ascensore ad arrivare arrancando dal piano terra al quinto.
Mi sbarcò in un corridoio sul quale si affacciavano 5 porte.
Su una delle porte si stagliava un 18 alto un metro e largo settanta centimetri, come dire, indicazione a prova di fesso, Steva non si smentiva mai.
Suonai il campanello.
“Allora Capitano, qual buon vento?”
“Ciao compare, ma l’ascensore l’ha progettato Leonardo da Vinci?”
“Già e credo sia lui che lo muove a forza di braccia dalla cantina”
Non ci vedevamo da alcuni anni ma Steva non era invecchiato di una virgola: alto, segaligno, capelli grigi tagliati a spazzola, magro come un chiodo e vestito come un gentiluomo di campagna inglese.
“ Vieni sediamoci” disse facendomi strada dentro l’ufficio.
“Bello commentai un pò claustrofobico ma elegante”
Era una stanzetta di tre metri per quattro con una piccola finestra sul lato corto, tutte le pareti erano coperte di scaffalature piene di libri giornali e quant’altro al centro incastonata tra le scaffalature stava una vetrinetta che conteneva una trentina di robot giocattolo il più recente dei quali doveva avere almeno quaranta anni.
“Vedo che la passione per i robot non ti ha abbandonato.”dissi.
“Mai, come diceva Gort.....”
“Klaatu barada nikto”
“Bene ora che abbiamo assodato che l’Alzhemer non ci ha ancora scovato, veniamo al dunque, qual’è il problema” mi disse andandosi a sedere dietro la scrivania ed indicandomi una sedia dall’altra parte.
La scrivania, le sedie ed il lampadario erano Kartell trasparenti e davano un tono glamour all’ufficetto, sulla scrivania troneggiava un Apple collegato ad un paio di stampanti.
“Perchè due stampanti credevo lavorassi solo on line” chiesi.
“Non me ne parlare, quella” disse indicando la più grossa delle due “E’ una Xerox a cera, divora i toner alla velocità della luce e ne ha quattro ogniuno dei quali costa attorno agli 80 euro”
“Non sapevo neppure esistessero le stampanti a cera, a cosa serve, oltre a farti spendere un bel pò di quattrini?”
“Come sai il mio lavoro consiste nell’impaginare la rivista “mondo natura” rivista che è composta all’80% di foto.Quello che forse non sai è che le foto viste sullo schermo del computer hanno un cromatismo diverso da quelle stampate, la stampante a cera rende il cromatismo della stampa e mi consente di correggere le distorsioni prima di mandare il materiale a Milano.
Ormai ci riesco quasi sempre ad occhio, ma siccome gli amanti del fringuello del botswana o della rana artica sono dei rompicoglioni spaziali sui colore dei loro animaletti, spesso devo fare una stampa per capire la resa.”fece una pausa poi aggiunse
“Dopo questa breve lezione sul meraviglioso mondo dell’editoria veniamo a noi, che favore ti serve?”
Gli spiegai il lavoro che dovevo fare e la necessità di una documentazione fotografica decente.
Mi guardo per un attimo perplesso come dovesse prendere un’importante decisione poi parlò
“Come forse sai tutto questo” e fece un gesto circolare che comprendeva tutto l’ufficio” appartiene a mia moglie” si alzò ed estrasse da uno sportello del mobile alle sue spalle una Canon EOS che doveva costare un botto” ed anche questa appartiene a lei, quindi se dovesse tornare alla base con un minimo graffio non esiterei a darti in pasto a lei, uomo avvisato....”
Conoscevo sua moglie Carla da secoli, era una delle persone più miti del mondo ed aveva orrore della tecnologia, ma il messaggio era chiaro.
“No se preocupe, ne avrò cura come di un figlio”
“Bene ora si va a fare la pappa che nuoio di fame”
“Sempre Gran ristoro?”
“Sempre io sono un uomo fedele, lascia qui la macchina la prendi al ritorno”
Uscimmo, ovviamente scendemmo per le scale, povero Leonardo, doveva aver avuto una mattinata dura, meglio non disturbarlo.
Usciti in stada ci immettemmo nel flusso delle persone multicolori e multirazziali che affollano sempre via S. Luca nelle ore diurne.
“TI va una Lucky” disse steva porgendomi il pacchetto.
“Certo ormai posso permettermi solo le MS”
“Merda Secca” chiosò.
“Morte Sicura”risposi accendendo.
Ormai eravamo in piazza Banchi, svoltammo verso il mare e poi a sinistra sotto i portici di Sottoripa.
La coda in attesa fuori dal “Gran Ristoro” era fortunatamente esigua, una decina di persone. D’altronde erano quasi le quattordici, ed il grosso aveva già mangiato.
Ci accodammo pazienti.
“Con lo scrivere come sei messo?” chiesi a Steva mentre sentivo che alle mie spalle la coda si allungava.
“Bene, mi hanno pubblicato un racconto in un’ antologia, e ne sto scrivendo un altro, carino credo, ambientato nella Genova di inizio secolo”
“Azz, Sasso, stai diventando famoso e non mi dici nulla?”
“Dai quando torniamo sù ti regalo una copia”
Il “Gran Ristoro” era un locale piccolissimo, forse due metri per cinque, ma faceva i panini migliori di tutta Genova, me lo aveva fatto conoscere Steva, dieci anni prima, Ricordo che infervorato in chi sa quale progetto avevo ordinato un panino: cotto e pomodori, per la serie la fantasia al potere,mentre parlavamo avevo iniziato ad azzannare il panino, e come d’incanto avevo sentito il gusto del pomodoro della mia infanzia, il vero pomodoro, non quelle cose rossissime, dal gusto di cartone che compri al supermercato.Quando giunsi al prosciutto i miei sensi partirono verso la mia Romagna, terra delle mie radici, come avevo potuto accettare per anni di mangiare una cosa che chiamavano prosciutto e che era una via di mezzo tra una medusa ed un foglio di polistirene?
“Sei ancora con noi, o il Dio dell’universo ti ha appena chiamato a se?”
“Ci sono Steva, ci sono” risposi ancora immarso nei ricordi gustativi.
“Allora ordina che intasiamo la fila !”
“Tu cosa hai preso?”
“San Daniele e toma ed un bicchiere di Gallo Nero”
Mi sentivo osservato e guardai verso la fila che si snodava verso l’uscita.
Mi guardava con gli occhioni sgranati a tre persone di distanza.
Carina, capelli neri divisi al centro della fronte,naso un pò lungo ma simpatico, occhi forse verde e castano, alta, fisico asciuttto, un vestitino arancione corto, che esponeva delle belle gambe, le scarpe non riuscivo a vederle ma avrei scommesso che fossero arancioni.
“Base terra chiama Danilo, qualche problema, l’ Alzhemer ti ha finalmente scovato?”
“Scusa Steva prendo quello che prendi tu”
La guardai negli occhi e sorrisi, lei ricambiò.
Poi venni trascinato fuori da Steva.
Quella fu la prima volta che vidi Lara, ma ancora non sapevo.
Ancora non sapevo nulla, ma se avessi saputo, forse avrei fatto lo stesso percorso.
“Direi che possiamo sederci su una panchina dell’expò per consumare il nostro frugale pasto” disse Steva.
“Ottimo”risposi” però il Gallo Nero nel bicchiere di plastica....”
“Avresti preferito il Tavernello nel bicchiere di cristallo?”
“No, ma la forma è contenuto”rispondevo automaticamente, stavo ancora pensando a quel sorriso.
“Già ed il mezzo è messaggio” rispose Steva poi a bruciapelo”La conosci o è il tuo proverbiale fascino.”
“Steva, parlami del tuo nuovo racconto”dissi, la miglior difesa è l’attacco.
“E’ un racconto di spiritismo fantascientifico, ambientato a Genova nei primi anni del secolo, il protagonista è un giornalista del Caffaro”
“Interessante, quindi c’ è anche la ricerca storica”
“Anche ed anche i viaggi nel tempo, se ti interessa ti faccio avere le bozze”
“Certamente magari ti correggo qualche errore di ortografia” risposi sorridendo.
L’indomani a mezzogiorno ero seduto nel dehor del bar Centrale a sorseggiare il mio Campari in compagnia di Martino, era ancora presto per la clientela abituale e quindi potevamo fare due chiacchiere mentre sua sorella al banco serviva da sola i rari avventori.
“Dunque hai deciso di accettare?” mi domandò diretto Martino.
“Non so, è un lavoro enorme, per ora faccio qualche foto e prendo un po di misure, poi vedo di fare un preventivo, allora mi sà che sarà il Don a non accettare, verrà una bella cifretta”
Martino voltò il capo per dare un’occhiata dentro il bar, tutto tranquillo.
“Danilo, il Don è un po eccentrico ma non è uno sprovveduto, credo si renda benissimo conto della quantità di lavoro ma la parrocchia proprio povera non è e quei lampadari meritano”
“Si sono splendidi ed è una sfida che mi affascina ma da solo temo di non farcela”
“E chi ha detto che sarai solo? Il Don sta già organizzandoti una squadra di volontari, il Capitano dice cosa bisogna fare e la squadra lo fa, semplice no?”
“Quindi date per scontato che lo farò?”
“Diamo per scontato che si farà, se vorrai essere tu a farlo te ne saremo tutti grati, sennò...”
Era una discussione oziosa, io volevo quel lavoro con tutte le forze ma volevo farlo bene.
“Ho già una mezza idea di come procedere” risposi “Abbiamo un trabatello abbastanza alto? Perchè i piccoli possiamo calarli con le carrucole e lavorarci a terra ma quelli grossi non possiamo spostarli.”
“Abbiamo il trabatello alla chiesa di S. Luca, fuori paese, è altissimo, sei elementi mi pare, basta portarlo qui ed il gioco è fatto”
“ok ora vado a fare un po di spesa poi dopopranzo vado in chiesa a fare le foto”
“Buon appetito” rispose Martino alzandosi” vado anche io, che mi par di vedere un po di movimento”.
In effetti il bar si stava popolando di avventori per il rito dell’aperitivo e della chiacchiera pre prandiale, salutai alcuni conoscenti e mi avviai verso la macelleria per organizzarmi il pranzo.La macelleria era ovviamente chiusa per lutto, ma ormai le mie papille gustative si aspettavano le costine al forno, quindi feci un rapido dietrofront ed attraversai la strada diretto alla macchina.
Ora, il mio angelo custode di solito sonnecchia, ma quel giorno doveva essersi fatto un overdose di caffè, Infatti la rombante Kawasaki mi mancò per un soffio, mi voltai per mandare affanculo il centauro, era ormai lontano ma non abbastanza da non farmi pensare che quei capelli corvini, che spuntavano dal casco e quel vestitino arancio li avevo già visti, non molto tempo prima.
”Vedi che avevo indovinato” dissi fra me e me “Le scarpe sono arancioni”.
“Danilo !” mi sentii chiamare dall’altro lato della strada, era Martino con in mano una bottiglia, ci venimmo incontro.
“Il Don ti manda questa in omaggio è un rosso delle sue vigne”.
“Ringrazialo da parte mia, sai mica chi è quella matta in moto che a momenti mi arrotava?”
“Lara Monti, abita un paio di kilometri fuori paese in una casa isolata sul fiume, sarà un paio d’anni che si è trasferita.”
“Tutto qui?, la gazzetta del paese è a corto di notizie” Gli dissi sorridendo.
“Fa una vita molto riservata, viene poco in paese, il figlio studia fuori e lei lavora a Genova.”
“Ed il marito?”
“Separata, ma con ti starai mica facendo delle storie in testa?, guarda che quella è pericolosa.”
“Lo so ha appena tentato di uccidermi. Ma dai che storie vuoi che mi faccia non ho mica più diciotto anni, senti esiste ancora quella macelleria a San Luca, avevo voglia di due costine per pranzo.”
“Per esistere esiste ma sarà chiusa, comunque Saro abita di sopra suoni il campanello e ti apre il negozio.”
“Per due costine?”
“Anche per una, basta che veda il colore dei soldi”
“Grazie della dritta vado subito e ringrazia il Don della bottiglia” salii in macchina e mi feci i sette chilometri sino a San Luca, chiamarlo paese era eccessivo anche ad essere di manica larga, una ventina di case appiccicate, attraversate dalla provinciale, una chiesetta, un bar trattoria tabacchi con una graziosa pergola di vite fragolina, un fruttivendolo ed il mio macellaio.
Fortunatamente era ancora aperto ed anzi stava in quel momento uscendo dal negozio una signora carica di borse, se era tutta carne doveva aver invitato a pranzo Gargantuà.
Entrai, dietro il banco un’ometto con la coppola stava disossando un prosciutto crudo, alzò gli occhi e mi sorrise.
“Spero di non essere troppo in ritardo, vorrei delle costine di manzo”
“Ma che ritardo” mi rispose con un forte accento sardo”Il lavoro ,lavoro è, pe quante persone?”
“Una, sono solo.” Il sorriso gli si attenuò visibilmente ma prese a tagliare tre costine le pesò e incartò.”Serve altro?” chiese gentilmente, probabilmente si domandava chi fosse quel fesso di turista che si era fatto minimo sette chilometri dal primo luogo abitato per comprare tre costine.
“Un informazione : sa mica quando apre il fruttivendolo qui accanto, avrei bisogno anche di un po di verdura, “ il sorriso illumino nuovamente il suo viso.”E’ di mia moglie, ma le apro io andiamo.” E si avviò “Devo ancora pagarle la carne” obbiettai.
“ Tutto un cunto facciamo alla fine paga”.
Finalmente alle 14 arrivai a casa. Attraversai in qualche modo il giardino invaso di erbacce, mi aprii un varco nell’edera che blindava la scala d’accesso al primo piano e finalmente riuscii ad entrare. Accesi il contatore della luce, attaccai il frigo, lo riempii delle mie provviste, poi decisi di metterci anche il vino, si che il rosso va bevuto a temperatura ambiente ma non quando nell’ambiente ci sono trenta gradi.
Ovviamente mi ero dimenticato di aprire il rubinetto centrale dell’acqua. Ridiscesi a piano terra, già che c’ero accesi il forno e lo caricai di carbonella. Una buona mezzora dopo attaccai il Gazpacio che avevo preparato come primo piatto e le costine.
Uno dei pranzi più gustosi della mia vita la carne era tenerissima e saporita, il vino stupendo il Gazpacio era gazpacio ma si sentiva che le verdure erano veraci e freschissime.
Ora ci sarebbe voluto un pisolino all’ombra di un albero ma il dovere chiamava.
Erano quasi le 15 “ E perbacco” esclamai, citando mio nonno” il padrone ce l’abbiamo con noi no”.
Quindi mi arrampicai nella casa sull’albero di Michele misi la sveglia mentale, ma pure quella elettronica del telefonino, sulle 16 e mi lasciai cadere nel sonno.
Ovviamente sognai Lara, un sogno confuso ed abbastanza angosciante: correvo lungo il sentiero di un bosco che conoscevo bene, sapevo di essere in ritardo per qualcosa, forse un'appuntamento importante, era l'imbrunire ed il sentiero iniziava a scendere sempre più ripido, vedevo avvicinarsi il grande noce che indicava il limite del bosco oltrepassatolo avrei incontrato la statale, lo raggiunsi e sempre correndo svoltai a destra per trovarmi in un vicoletto buio in salita, doveva essere dalle parti di piazza Caricamento, in cima al vicolo intravidi una figuretta ferma sotto ad un lampione, da quella distanza non potevo averne la certezza ma sapevo che era Lara.Avevo il fiatone, il cuore mi batteva a mille, non potevo continuare a correre.
La chiamai, lei si voltò e mi sorrise come la prima volta. Ma era troppo truccata, ed aveva una gonna troppo corta ed una scollatura troppo profonda.
Mi avvicinai camminando, o meglio, camminavo ma non riuscivo ad avvicinarmi, anzi la figura era sempre più lontana, ripresi a correre, anche lei si mosse verso di me, fece pochi passi, sembrava incatenata al lampione, mi tese la mano ma eravamo troppo lontani, vidi la sua bocca articolare delle parole ma non udii alcun suono, il suo viso era ora terrorizzato. Spalancò gli occhi e disse: Aiuto Capitano.
Aprii gli occhi e consultai l'ora sul cellulare 15:58, disattivai la sveglia.Il mio contatempo mentale aveva funzionato egregiamente ancora una volta. Non che fosse un dono di grande utilità, avrei preferito che so il dono di vincere al gioco o di predire il futuro ma quello mi era stato dato e quello mi tenevo, naturalmente del sogno non ricordavo nulla, se non che in qualche modo riguardava Lara.
Alle 16:30 ero al bar Centrale e cinque minuti dopo entravo nel duomo assieme a Martino.
“Il Don è a dir messa in frazione” mi stava spiegando Martino” tornerà tardi, ma tu fai come fossi a casa tua” concluse con un sorriso.
Lavorai di lena per tre ore fotografando il fotografabile.
L'enorme vantaggio della fotografia digitale era che potevi scattare una quanità enorme di immagini e decidere in un secondo tempo cosa tenere e cosa buttare
Da giovane, tra i mille mestieri tentati avevo fatto anche il fotografo ed ai tempi capitava spesso che per risparmiare su pellicola e sviluppo, si tralasciassero particolari che sarebbero risultati in seguito essenziali per la riuscita del lavoro.
Quando il Don fù di ritorno avevo terminato.
“Allora che ne pensi Capitano?” esordì
“Bellissimi, ho fatto quelli della “Virgo potens” a Genova ma questi sono molto più belli e conservati benissimo.Praticamente non necessitano di restauro, basta rifare l'impianto elettrico e pulire e ripristinare le catene di cristalli.”
“Il restauro delle parti lignee e delle dorature lo ha fatto una ditta di Torino una quindicina di anni fa, hanno fatto un ottimo lavoro, anche se ci è costato un botto, ma di elettricità non capivano un tubo quindi ho preferito soprassedere, ma ormai è giunta l'ora di provvedere.”
“Visto che si tratta solo di manutenzione ordinaria penso che dovrebbe bastare una comunicazione alla Soprintendenza senza dover istruire una pratica, sennò può scordarselo di averli pronti per Natale”
“Penso anche io” disse il Don” ho alcuni cari amici in Soprintendenza, chiederò un parere informale, se nulla osta direi che partiamo.”
“Non le ho ancora fatto il preventivo....”
“Ce la fai per Giovedì a pranzo ?”
“Ci provo” risposi.
“Provare non basta, riuscire bisogna, anche perchè ho già prenotato per le 13 alla “Baracchetta” di S. Luca, arrivederci a Giovedì.Usa la Forza Capitano” e con un sorriso da gatto del Chesire si ritirò in canonica.
“Ma guarda te” pensai “solo a me poteva capitare un prete che cita “Guerre Stellari”.
In coda al casello di Genova Ovest ripensai a Lara.
Ero sicuro di non averla mai vista, prima di quella volta al “Gran Ristoro”, oddio, sicuro è una parola grossa, io non sono assolutamente fisionomista ma un viso così lo avrei ricordato ed anche lei sembrava aver riconosciuto qualcosa in me e poi averla rivista il giorno dopo ed averla anche sognata.... anche se non ricordavo nulla del sogno ero certo che la protagonista fosse lei.
“Tipiche seghe mentali da attesa al casello” pensai.
“Come dice?” chiese il casellante.
“Nulla, mi scusi pensavo. a voce alta”
Pagai e mi diressi verso casa.
Passai tutta la giornata di Mercoledì a fare conti che non tornavano mai.
Le variabili erano troppe e non avevo mai affrontato un lavoro così grosso da solo.
Alla fine decisi che potevo chiedere cinquemila euro, era un prezzo molto basso ma volevo fare quel lavoro, e comunque non avevo altro all’orizzonte se non piccoli restauri e qualche riparazione.
Giovedì mattina mi svegliai all’alba e rifeci tutti i conti, avevo paura di non starci con le spese, avevo calcolato i costi come se avessi potuto svolgere il lavoro in laboratorio ma in trasferta era tutta un’ altra cosa, fra spese vive cibo e benzina ce ne sarebbero voluti almeno seimila.
Alle nove mi chiamò il Don sul telefonino “ Ciao Danilo, che ne dici di venire sù un po’ prima, così parliamo del preventivo e poi andiamo a pranzo più rilassati?”
“Certo Don, potrei farcela per le undici”
“Va bene anche mezzogiorno tanto non c’è mica molto da discutere no?”
“Ok, per mezzogiorno sono li”
“Bene, mi trovi nell’orto, a dopo”
“Non c’è molto da discutere dice lui” pensavo mentre in auto aggradivo i tornanti che mi avrebbero portato a S. “ questo lo dice lui, mi sa che invece ci sarà da discutere un bel po’”.
Ero a tre chilometri dal paese ed erano le undici e trenta, troppo in anticipo.
Accostai in una piazzola al limitare di un bosco di castagni e spensi il motore.
“Ok” mi dissi “ è ora di usare la magia, Allora destino cinico e baro : ora scendo e mi inoltro nel bosco per dieci minuti, poi torno indietro, altri dieci minuti, se trovo un fungo commestibile in questo tempo andrà tutto bene, sennò sono fregato e accetto di buon grado la sconfitta.
Ci stai? Anzi ci metto il carico a bastoni, non un fungo commestibile qualsiasi, un porcino od un ovulo.”
Lanciata la scommessa aprii la portiera e feci per scendere dall’auto, non scesi, avrei potuto schiacciarlo, a venti centimetri dall’abitacolo, occhieggiando da un ciuffo d’erba un bel porcino da un paio d’etti sembrava aspettare solo me.
“Porca vacca” pensai “ ma varrà lo stesso? La scommessa parlava di inoltrarsi nel bosco”
Per scaramanzia, dopo aver raccolto il mio tesoro feci lo stesso la passeggiata nel bosco non trovando nulla.
Mi rimisi alla guida ed a mezzogiorno meno cinque varcai il portoncino dell’orto.
Il Don mi aspettava seduto sotto una pergola, sul tavolino al suo fianco c’era una bottiglia di spumante e due flute.
“Accomodati Capitano” disse sorridendo “ ci prendiamo l’aperitivo al fresco mentre parliamo d’affari”
Stappò la bottiglia e con fare da sommelier consumato riempì i bicchieri,
brindammo e bevemmo.
“Questo lo faccio io, non ha nulla da invidiare agli champenoise più famosi”
“ Ottimo davvero” dissi “ non amo molto le bollicine ma questo è davvero buono”
“ Dunque Don, ci ho un po’ pensato”
“si, anche io”
La partita a scacchi era cominciata ma lo svolgimento era ben diverso da quello che mi sarei aspettato.
“Allora Don, il punto è che non sono in grado di fare un preventivo, ma ho una soluzione alternativa- lo stavo rifacendo, stavo nuovamente navigando a vista, come al liceo quando dovevo fare il compito in classe di italiano: usavo le prime due ore per scrivere una brutta copia del testo su cui mi arrovellavo scrivendo e cancellando e riscrivendo, poi all’inizio della terza ed ultima ora, iniziavo a scrivere in bella copia un tema che non c’entrava nulla con tutto ciò che avevo scritto in brutta.
Così ora mettevo da parte tutti i calcoli che avevo fatto per proporre un’altra cosa.-
“Visto che non sono in grado di quantificare la spesa direi di fare una cosa a cottimo, mi spiego: potremmo accordarci sul fatto che io mi impegno a lavorare quaranta ore a settimana e lei si impegna a corrispondermi dieci euro l’ora di paga, poi a fine mese le faccio una fattura dell’importo mensile, ed il mese dopo si ricomincia. Visto che lavorerò in chiesa le sarà facile controllare il lavoro effettivo e verificare che non mi imbosco a leggere il giornale.”
“Quindi sarebbero 1600 euro al mese, per quanti mesi all’incirca?” disse il Don con aria dubbiosa.
“Direi circa cinque mesi, più o meno” feci un rapido calcolo mentale : mille per cinque fa cinquemila; seicento per cinque tremila, cazzo! il totale era ottomila, avevo sparato troppo alto.
“Come mai un tempo così lungo?”
“beh, vede Don l’elettrificazione è relativamente semplice, ma i cristalli sono buttati su alla bell’e meglio e sono sporchissimi, andranno lavati e sicuramente molte giunte andranno rifatte è un lavoro lungo. Naturalmente cercherò di fare il più in fretta possibile, ma se le sembra troppo...”
Il Don era pensoso “Hai detto che mi farai una fattura mensile”
“Si la partita IVA non l’ho ancora chiusa”
“quindi” continuò il Don come parlasse tra se e se “quindi sui milleseicento euro ne pagherai 320 di IVA, in più avrai le spese per mantenerti qui e sul totale che incasserai dovrai pagare le imposte, giusto?”
“Giusto” risposi, non capivo dove volesse andare a parare, pensai al mio porcino abbandonato in macchina sotto il sole. Mi rivolsi mentalmente al Destino “Ehi tu, un patto è un patto, non lo scordare”
“Allora senti cosa facciamo, io ci metto il materiale, ho il conto aperto dall’elettricista, e ti corrispondo tredici euro l’ora, e tu ti impegni a finire prima possibile e nel miglior modo possibile”
“Ma Don, è troppo”
“No non è troppo, è giusto. Il preventivo migliore che mi hanno fatto è stato di 11.000 euro più IVA per sei mesi di lavoro, vengono più di tredicimila euro alla fine, con te ne spendo poco più di diecimila, vedi bene che anche io ci guadagno”
“Non fa una grinza”risposi esterefatto.
“Bene Capitano, allora alziamoci in piedi e stringiamoci la mano, è così che si firma un contratto da queste parti”
Ci alzammo e solennemente ci stringemmo la mano.
“Devo ricordarmi di baciare quel fungo” pensai.
“Ed ora” disse il Don “ In macchina, che la truppa ci starà già aspettando in trattoria”.
“ se non tidispiace andiamo con la tua auto, io se posso preferisco non guidare, prima però passiamo in canonica a prendere il vino”
“come sarebbe a prendere il vino, non andiamo in trattoria ?” commentai stupito.
“ certo che si, ma al mio vino non rinuncio, seguimi in cantina” detto questo girò langolo della canonica.
Quella parte dell'orto non la avevo ancora vista, era un terrazzamento in piano, lungo una ventina di metri e largo forse dieci, che si apriva verso sud sorretto, immaginavo, a valle da una massicciata.La vista era splendida,ed aperta, a qualche chilometro si scorgeva la catena appenninica che si stagliava nitida contro un cielo azzurrissimo.
Tutta la superficie disponibile era coltivata ad orto: al rosso intenso dei pomodori rispondeva il verde brillante dei fagiolini, il giallo ocra dei fiori di zucchino, le multicromie dei peperoni, il viola intenso delle melanzane, più lontano, sull'orlo dello strapiombo,protette da una staccionata di legno crescevano praterie di insalata e di basilico in un tripudio di tonalità del verde, sulla destra guardando verso valle stavano le piante medicinali e gli odori ed un enorme pianta di rosmarino addossata al muro della canonica spargeva il suo profumo nell'aria soleggiata.
“che succede, ti sei incantato?” domandò il Don.
“Perbacco padre Firmino, è tutto così bello, deve darmi il permesso di fare qualche foto, i colori sono splendidi.”
“Certo, quando vorrai, ti consiglio verso sera i colori sono più vividi, ma ora vieni a darmi una mano col vino”.
Entrammo nella cantina da una porticina alta forse un metro e sessanta dipinta di azzurro incastonata fra due panche di pietra consunta, istintivamente abbassai il capo e lo tenni reclinato anche all'interno, ma non era necessario eravamo in un ampio locale sovrastato da una volta a botte sulla parete di sinistra stavano allineate cinque grosse botti di quercia le altre pareti erano ricoperte da scaffalature piene di bottiglie messe a riposare semisdraiate e divise in gruppi a seconda dell'annata.Al centro troneggiava un banco da lavoro in pietra con tanto di lavandino incassato affianco al banco macchine per imbottigliare tini di varie dimensioni, cantabrune ed altri vari attrezzi per la lavorazione dell'uva.
“prendi per favore quel cestello. da sei bottiglie” mi ordinò il Don mentre si aggirava fra gli scaffali.
“questa direi che ci vuole, un rosso morbido per accompagnare i primi piatti, penso ce ne vorranno un paio, e questo” continuò,” per i secondi, ma mi sa che due non bastano, cosa dici: tre o quattro?”
“dipende da quanti siamo Don” risposi mentre lo seguivo col mio contenitore.
“facciamo quattro, melius abbundare quam deficere, cosomai facciamo sempre in tempo a riportarle indietro”
Mi piaceva la logica del Don, e mi piaceva la sua calma nel fare le cose.
“questo” disse indicando la bottiglia “viene da un vitigno di Bordeaux, siamo riusciti ad adattarlo alle nostre terre, sentirai che spettacolo”.
“Il cestello è pieno Don” dissi
“Bene prendine un'altro, ci mancano un po' di bollicine”
Obbedii.
Tornammo all'aperto e la luce ci aggredì subitanea, il Don estrasse dalla tonaca una grossa chiave e chiuse la porta della cantina.
“hai sentito che è passato il lodo” mi disse mentre ancora mi dava le spalle.
“Ho sentito si, martedì scorso, ma tanto fanno quello che vogliono”
“già, ma perchè siamo un paese di zombie”
Il Don si sedette sulla panchetta affianco alla porta.
“vedi Danilo, non mi fa incazzare” usò proprio quel termine” che Silvio sia un delinquente, ne abbiamo avuti tanti, sia al governo che all'opposizione” annuii sedendomi sulla panca al lato opposto della porta.
“quello che non sopporto è il messaggio che comunica: siate falsi, siate furbi, passate sulla testa del vostro prossimo se ciò vi porta un vantaggio! Non è per questo che tanti ragazzi sono morti nella lotta di liberazione, non è questo che sta scritto nella nostra costituzione. ma il paese lo segue, non aspettava che quelle parole, d'ordine, vivi e lascia morire, un paese di cialtroni ha finalmente trovato la sua espressione, Il Cialtrone Massimo, Il Grande Bugiardo”.
“già” risposi “ anche se un Massimo cialtrone lo possiamo produrre anche dall'opposizione, quello che piuttosto che dire una cosa di sinistra si taglierebbe i baffetti”.
“o colerebbe a picco con tutto il suo Yacht”chiosò il prete.
“dai andiamo che deve essere ben tardi, dove hai il bolide?”
“davanti al duomo Don, ma è una vecchia Panda, altro che bolide, la chiesa non la chiudiamo?”dissi mentre uscivamo dall'orto.
“Danilo, la casa di Dio deve sempre essere aperta a chiunque voglia entrare, chissà che qualche peccatore non approfitti dell' intervallo di pranzo per parlare un po con lui”.
“vorrei poterci credere Don, ma il mio realismo me lo impedisce”
“Se non ci credono gli uomini di buona volontà allora è tutto inutile, dobbiamo credere anche per gli altri, tu da laico, io da religioso, dobbiamo credere che riusciremo a cambiare il mondo in meglio con le nostre parole e le nostre opere. C'è una vecchia storiella che mi raccontavano in seminario: il bosco sta bruciando, tutti gli animali scappano verso la radura, un passerotto vola in direzione contraria, con una goccia d'acqua nel becco, la volpe lo vede e lo apostrofa “ e tu dove stai andando non vedi che il bosco brucia ?” ed il passerotto senza smettere di battere le ali risponde “Io vado a fare la mia parte, per cercare di spegnere il fuoco”.
“si Don, è vecchia,la conoscevo anche io, ok, cerchiamo di fare la nostra parte” e sorridendo misi in moto.
Per ora la nostra parte consisteva nel riempirci la pancia, ma si sa, le vie del signore sono misteriose ed imperscrutabili.
“Sei mai stato a mangiare alla “Baracchetta”?” chiese il Don mentre viaggiavamo rapidi verso S.Luca.
“No, l'ho intravista l'altro giorno quando sono andato a far la spesa, ma mi era sembrata chiusa”
“Lavorano solo alla sera, o per qualche occasione speciale, o per qualche cliente speciale” spiegò il Don.
“Capito, e noi cosa siamo, un'occasione speciale o un cliente speciale?”
“Diciamo che siamo entrambe le cose, è una vecchia storia”disse con aria miseriosa.
“adoro le vecchie storie” commentai “potrebbe raccontarmela”.
Invece di rispondermi il Don alzò un dito ed indicò fuori dal finestrino “La vedi quella cappelletta sulla curva? Se vuoi sentire la storia accosta, ormai siamo quasi arrivati e non riuscirei a raccontarla in così poco tempo”.
Fermai l’auto subito dietro la cappelletta, dove c'era una specie di parcheggio.
“La storia risale ad ormai venti anni fa, conoscerai Saro credo se hai fatto la spesa a S.Luca.”
“il sardo che fa il macellaio ed il fruttivendolo immagino, un bel tipo” risposi.
“Non solo quello, è anche il gestore della “Baracchetta”
“Caspita Don manca solo che dica messa e poi ha chiuso il cerchio, San Luca è lui.”
“Vent'anni fa faceva il camionista” continuò il Don senza commentare la mia battuta “Mezzi grossi, viaggiava tra l'Italia e la Germania, qualche volta in Francia, spesso tornava a S Luca con la motrice del Tir, si fermava qualche giorno a casa con la moglie e la figlia e poi ripartiva. Dovevi vederlo portare quel bestione, lui che pesava cinquanta chili con le scarpe, sulle nostre carrettiere andava come un razzo, guadagnava bene, la moglie arrotondava col negozio di frutta e verdura e la bambina cresceva sana e robusta erano una famiglia laboriosa e felice ma poi il diavolo ci mise la coda: la bambina si ammalò, ben presto si capì che era una grave forma di leucemia, girarono per monti e per mari per ospedali e santuari ma la risposta era sempre la medesima, era solo questione di tempo.
Saro iniziò a bere, e si sa che bere e guidare non vanno bene assieme ma per caso o per fortuna non aveva mai avuto un incidente, sino a quel Sabato.
Stava tornando da Savona dove aveva scaricato del latte in polvere portato da Colonia, il rimorchio lo aveva lasciato in porto dove lo avrebbe ripreso il lunedì per tornare in Germania.
Stava facendo buio, ma ormai era ad un solo chilometro da casa.Lo sai che l'ultimo chilometro è il più pericoloso? Si abbassa la guardia, ci si sente già con le gambe sotto il tavolo, ed invece …....”
Mi guardò con gli occhi socchiusi poi continuò
“La ricostruzione dei carabinieri fu che, completamente ubriaco aveva preso la curva troppo larga ed era andato a schiantarsi nell' unica roccia presente nel raggio di quattro chilometri. A me però Saro raccontò, in confessione, una storia molto diversa: aveva comprato a Colonia una statuina della madonna da regalare a sua figlia Margherita. Aveva parlato per tutto il viaggio con la statuina, che sembrava ascoltarlo, le aveva raccontato la storia della sua vita da quando era ragazzino in Sardegna al giorno corrente, le aveva spiegato del male di sua figlia e le aveva chiesto la grazia e come tutti i genitori aveva concluso con il classico prendi me invece che lei.
E la statuina gli aveva risposto :Saro tu sui un uomo buono e meriti il mio aiuto, io ti indicherò il male che affligge tua figlia e tu lo distruggerai.
Saro stava affrontando l'ultima curva, che lo avrebbe portato sul rettilineo che conduceva al paese, quando in mezzo alla strada comparve una figura di luce splendente con le fattezze della sua madonnina che indicava qualcosa sul lato destro della carreggiata, ed allora Saro lo vide, vide il maledetto mostro che stava uccidendo sua figlia. Premette forte il clacson, scalò la marcia e schiacciò l'acceleratore a tavoletta, la motrice scateno tutta la sua potenza, Saro diede un colpo di sterzo ed urlò tutta la sua rabbia mentre si schiantava sull'orrenda creatura distruggendola.”
Il volto del Don era teso, gli occhi fiammeggiavano, mi fece cenno di scendere, aggirammo la cappelletta, in realtà la costruzione era semplicemente una struttura che inglobava un pezzo di roccia alto un paio di metri nel quale era infisso il paraurti di un TIR, sul culmine della roccia splendeva una madonnina.
“Naturalmente gli tolsero la patente, e quindi la sua fonte di reddito, allora gli proposi di rilevare la “Baracchetta”, che era chiusa da anni, e di fare il ristoratore. Gli prestai una ventina di milioni, che mi ha già restituito da tempo, e gli feci un po' di pubblicità.
Ora le cose gli vanno bene ma non si è scordato del vecchio prete che ha creduto in lui, quindi diciamo che sono un cliente speciale”
“E la figlia Don?”chiesi con un filo di voce.
“ Margherita ormai è grande, ma la vedrai con i tuoi occhi fra poco, è lei che serve ai tavoli e direi che è la più bella cameriera della vallata”.
“ma e la leucemia?”
“tu credi nei miracoli?”
“no Don, purtroppo no”
“E’ un vero peccato, comunque Saro e la sua famiglia ci hanno creduto, per questo hanno costruito questa cappelletta”
“e quindi?”
“E quindi ci dobbiamo sbrigare, che siamo in ritardo marcio e la colpa è tua che mi fai parlare”
“mia? Ma Don....” inutile discutere con uno così, risalii in macchina.
Non guardai la madoninna, sapevo che se lo avessi fatto mi avrebbe sorriso, e per ora volevo rimanere da questa parte della realtà, ma per quanto tempo ci sarei riuscito?
La squadra ci attendeva in ordine sparso nel parcheggio davanti alla trattoria.
“alla buonora,iniziavamo a pensare che vi avessero mangiato i lupi” disse un signore molto distinto sulla settantina, alto, magro, con una chioma di capelli bianchi tagliati cortissimi.
“questo è Gianni” disse il Don “il tuo sergente di ferro, e questa è la truppa: Sara, moglie di Gianni e grande cuoca, costoro invece sono Leonardo, bancario in pensione e sua moglie Giovanna titolare della migliore, ed unica, merceria del paese ed infine le due signore sono Sandra parrucchiera per signora ed Anna insegnante di italiano alla scuola media, sino allo scorso anno, ed ora felicemente in pensione e questo è Martino, barista, gazzetta ufficiale del paese e mio personale consigliere ma credo che già vi conosciate”disse il Don ridendo.
“Molto piacere di fare la vostra conoscenza, io sono Danilo e devo dire che sono molto poco fisionomista e negato per i nomi, quindi mi scuserete se farò un po' di confusione” stavo per dire “ Si sbalio mi corigerete” ma a ben pensarci non era il contesto giusto.
In quel momento apparve nel pergolato della trattoria Calamity Jane, che disse :”Allora ciurma, volete venire a tavola che gli antipasti son già serviti?”
Mi avvicinai al Don e gli chiesi sottovoce “ ma quello splendore di fanciulla vestita da cowgirl è Margherita?”
“ e chi sennò” rispose il Don ridendo sotto i baffi.
Era una bellissima rossa sulla trentina, fasciata in un paio di jeans neri che mettevano in risalto le lunghe gambe, la camicetta bianca, abbondantemente scollata, spumeggiava sotto il gilet aderentissimo ed ovviamente nero. Completavano la mise un paio di stivali da cavallerizza ed uno Stetson sempre nero, che le pencolava sulle spalle.L'effetto complessivo era notevole, ed incredibilmente lontano dal kitch che la somma dei capi avrebbe dovuto produrre.
“Mi sa che dovrò ricredermi sui miracoli” mormorai accendendomi una sigaretta.
“non è mai troppo tardi figliuolo, e spegni quella cicca che fra poco si mangia” disse il prete spingendomi dentro il locale.
La “Baracchetta” era una vecchia scuderia riadattata, una strutura quadrata di circa dodici metri per dodici costruita con mattoni pieni, il perimetro, quello che immaginavo dovesse ospitare un tempo le poste per i cavalli, era coperto per circa due metri e mezzo da un tetto di coppi rossi,spiovente verso l'interno e sorretto da una serie di esili colonne di mattoni, il lato a nord dal quale eravamo entrati era stato in parte chiuso con un muro ed ospitava le cucine ed i servizi, sugli altri tre lati erano disposti tavoli massicci apparecchiati con tovaglie di cotone pesante a scacchi bianchi e rossi. Lo spazio che rimaneva al centro, un'area di circa sette metri per sette, era sovrastato da una pergola su cui correvano viticci di uva fragola. Sotto la pergola ci attendeva il nostro tavolo già imbandito .
“Allora” disse il Don, sedendosi a capotavola ed indicandomi “ il nostro ospite va all’altro capotavola, tutti gli altri dove credono”.
In un attimo la squadra prese posto, io mi avviai al mio ma era già occupato da un gattone nero accoccolato sulla mia sedia che mi quardava con i suio occhi gialli, come a dire: questo posto è mio, e per inciso, tu chi saresti?
Ci guardammo a lungo, come si guarda qualcuno, forse un vecchio amico ritrovato, prima con pudore, poi lentamente come se dai meandri dei nostri ricordi affiorasse una qualche riminescenza, con interesse, alla fine scese dalla sedia e come fui seduto mi saltò sulle ginocchiacon la coda alta rullando.
Lo accarezzai piano sulla testa.
“Vedo che hai fatto amicizia con Mauri” disse Calamity Jeane, comparendo alle mie spalle.
“Mauri ?” dissi ” bel nome, diminutivo di Maurizio?”
“no cognome di laziale” disse chinandosi su di me.
Ora io credo di essere un uomo di mondo, anche se non ho fatto il militare a Cuneo, come dice De Curtis, però il suo fiato caldo sul collo e la visione del suo seno a dieci centimetri dal mio viso non mi lasciava indifferente.
“Credo di non aver capito” balbettai.
“Se vuoi ti spiego” disse con la voce di Jessica Rabbit.
“Spiega” implorai
“Ma prima prendiamo le ordinazioni, no. Senno il don si incazza” mi disse carezzandomi la testa.
Mi resi conto di non essere affatto un uomo di mondo, era calato uno strano silenzio e tutti ci guardavano con aria interrogativa.
“Maggy non irretire il nostro restauratore, siamo qui per mangiare non per flirtare” disse il don.
Margherita si allontanò e iniziò a prendere le ordinazioni.
Mauri ronfava sulle mie ginocchia ed io mi chiedevo se non mi fossi innamorato.
Mi risposi di no, volevo solo trovare il modo di parlare a quattrocchi con lei, per chiederle di Mauri ovviamente.
Il pranzo scorreva sicuro su binari collaudati.
Devo dire che dai Plin, figli minori in dimensione, ma non certo in sapore, dei tortellini, al misto di carni arrostite, servito su una piastra di ghisa fumante il menù si era dimostrato ottimo, ed i ini che il don andava via via stappando si sposavano alla perfezione con i piatti.
Ero in una situazione di beatitudine, avevo un buon lavoro, tutti mi stimavano, a prescindere devo dire, ma così era e non ultimo, Margerita ad ogni passaggio, mentre serviva a tavola mi stilettava sguardi che, anche a fargli la tara, avevano un unico significato.
Ora, io amavo mia moglie, mio figlio e la mia famiglia era il mio mondo, avevo 53 anni, credevo di essere in possesso di tutte le mie facoltà mentali, possibile che potessi immaginare una storia con la trentenne Margherita? No mi risposi, ma che cazzo vai a pensare.
Quando però mi si sedette sulle ginocchia e mi disse all’orecchio con la sua voce roca : Allora vuoi sapere perchè il gatto si chiama Mauri ?
Pensai: si voglio saperlo, ma non qui.
“si, mi piacerebbe saperlo” dissi.
“si, ma non qui” disse lei.
Patatrac.
Ogni essere umano ha un limite, una specie di freno a mano che tira quando è vicinissimo al burrone.
Cercai di tiralo, “Non qui e non ora, visto che a quanto pare sono l’ospite d’onore” dissi
“Certo, quando vorrai purchè sia presto, io tia aspetterei per sempre, ma giustamente ci sono delle regole.”
Sarà stato il vino del don, o l’aria della campagna ma mi sentivo la testa vuota, ero stato invitato per presentarmi alla squadra per un lungo lavoro e mi stavo comportando come un cretino infatuato di una donna che conoscevo da un ora.
Caspita non potevo essere così ubriaco.
Cercai di essere coerente, rispondevo alle domande ed alle volte alle risposte, la platea sembrava entusiasta della mia preparazione nel merito. Margherita era assente, all’inizio fu un sollievo, potevo parlare con i committenti senza distrazioni, a poco a poco divenne un limite, avrei voluto vederla, ma non potevo certo sciogliere il gruppo per cercarla.
Ormai era pomeriggio, avevamo mangiato e bevuto abbondantemente,
il don mi si avvicinò, mi prese per un braccio e mi portò fuori, sull’aia.
“Danilo,” mi disse “cosa hai capito ?”
Avevo la testa che mi ronzava, pensavo a Margherita, pensavo al lavoro, e pensavo che ero capitato in wonderland “non lo sò don, credo di aver capito meno di nulla”
Il don parlò con la voce delle omelie:“Danilo, ci sono luoghi fuori dallo spazio, e spazi fuori dal tempo, se riusciamo a tenere i confini ce la faremo”.
Devo dire che non capii il senso del discorso perchè, essendo un uomo, ogni mio senso era puntato verso Margherita.
Ad un certo punto si capì che la riunione era sciolta e che si tornava a casa.
inedita diritti riservati in base alla legge
n° 633 del 22 aprile 1941 n° 537
Da sempre centro di scambi tra la bassa e la costa: percorso di sale e di carbone di legno e di mattoni, di funghi e di branzini, e di migranti ora su ora giù lungo l’antica strada.
Sede di schole ecclesiastiche e di fieri cittadini repubblicani.
Sempre in lotta, ora contro, ora a favore della repubblica di Genova.
Paese strano, sempre controcorrente, ma sempre attento ai propri interessi: nei primi del settecento decide di costruire una chiesa, anzi un duomo, ma i mattoni costano cari e portarli da Savona non conviene e allora si costruisce una fornace, tanto il legno abbonda e si sfornano mattoni su mattoni, più di quanti ne occorrano ed il surplus lo si vende e si fanno soldi su soldi.
E con quei soldi si comprano i servigi, se non dei migliori, dei secondi artisti: pittori, scultori, decoratori, maestri nell’arte degli stucchi e chiunque dietro degno compenso possa abbellire la gloria del loro duomo.
Duomo che sarà occupato dai nazisti nella seconda guerra mondiale ed adibito a deposito di legname.
Truppe infreddolite spaccavano ciocchi di legname sui marmi delle tombe dei parroci defunti.
Poi il boom degli anni 60: le case che si vendevano come il pane ai cittadini arricchiti che pur di avere un pezzo di giardino sborsavano cifre esorbitanti.
Finite le case fu la volta delle cascine e poi dei fienili, infine del terreno edificabile: Vuoi la casa in campagna: costruiscitela...
Fu un periodo di ubriacatura generale i soldi zampillavano ovunque, bastava raccoglierli e tutti volevano raccoglierli.
Quindi bar e pizzerie, campi da tennis ed alberghi, fruttivendoli, panettieri, pasticcerie, e rivendite di funghi ovunque, in stagione e anche non.
Ma ovviamente non poteva durare e non durò.
Pian piano il grande fuoco divenne una fiammella.
Anche mio padre non seppe resistere alla tentazione.
Era forse il 1965, io avevo all’incirca 10 anni.
Dopo una allegra giornata al mare, stressati dal caldo di un giugno particolarmente afoso i miei genitori decisero per una puntata rinfrescante all’interno verso l’appennino.
Imbarcati me, mia sorella, di quattro anni più giovane, la mamma e le masserizie varie che ci accompagnavano nelle nostre gite, e che sarebbero state sufficenti ad allestire un campo profughi di medie dimensioni, nella capiente “Ford Taunus Station Vagon” che proprio un vagone sembrava tanto era grossa, facemmo rotta verso il verde appennino.
Il progetto credo fosse di trovare una trattoriola verace dove cenare, per poi, con calma, riprendere la via della città quanto il traffico si fosse ridotto, ritorno intelligente ante litteram.
Ma si sa l’uomo propone e dio dispone.
Il Dio minore, che in qualche modo cambiò il percorso della nostra vita, si materializzò sotto forma di un capriolo che tagliandoci la stada costrinse mio padre ad una bruschissima frenata.
Essendo nella bella Italia, che prendeva per il culo i tedeschi che viaggiavano infagottati nelle cinture di sicurezza, la frenata non fu priva di conseguenze.
Mamma e papà erano illesi ma io sanguinavo dal naso per la botta presa conto lo schienale del sedile anteriore e mia sorella frignava per non si sa quale contusione.
E siccome le disgrazie non vengono mai da sole la station wagon aveva lo pneumatico anteriore destro squarciato.
Il capriolo in compenso era illeso e ci guardava stupito dall’altro lato della carreggiata.
Eravamo in aperta campagna, mentre la mamma mi tamponava il naso, e consolava mia sorella il babbo, da navigato comandante, aveva preso la decisione.
“abbiamo appena passato il paese di S.” Disse” Potremmo tornare indietro e fermarci in un bar a sciacquare la ferita di Danilo e rifocillarci ,ma sarà più di un chilometro a piedi sotto il sole.”
“invece su quella collinetta vedo una casa aperta, ci arriviamo in cinque minuti, non ci rifiuteranno un pò d’acqua.”
Poi rivolto a me” Che ne dici capitano pensi di farcela?”
Io in realtà a parte lo spavento alla vista del sangue, non provavo alcun dolore.
Assunsi un’espressione che avrebbe voluto essere ad un tempo sofferente ma determinata, tipo vecchio soldato che non molla mai, e risposi.
“Sono sicuro di farcela”
“E voi principesse?” riprese rivolto a mia madre e mia sorella.
“Certo andiamo, direi che Gabriella non ha nulla a parte lo spavento” rispose la mamma.
Raggiunta l’unanimità, dopo aver accostato l’auto al ciglio della strada, ci avviammo.
La casa si rivelò un villino a due piani immerso nel verde.
Al cancello spiccava un grosso cartello rosso in cui era scritto “Vendesi ultimi lotti”
Mentre mi scervellavo per capire cosa potessero significare quelle parole mio padre scuoteva il campanaccio appeso al cancello.
Se c’era qualcuno nel raggio di 10 chilometri avrebbe saputo del nostro arrivo.
Qualcuno c’era e molto vicino.
Un signore dal volto rubizzo in abiti da città venne ad aprirci il cancello e si mise subito a parlare con papà.
Cinque minuti dopo eravamo sistemati in un soggiorno luminoso, il mio naso tenuto a lungo sotto l’acqua corrente non sanguinava più, mia sorella scorazzava da una finestra all’altra per vedere il panorama e mia madre, donna previdente, stava spalmando di marmellata alcune fette di pane che aveva estratto dal cestino da pic nic che si era trascinata dietro dalla macchina.
Quando mio padre rientrò col nostro ospite eravamo tutti e tre impegnatissimi a divorare pane e marmellata spargendo briciole ovunque.
Subito mia madre si scusò col padrone di casa per l’invadenza ed il disordine.
Quello fece un sorriso, ed indicando mio padre, disse: “Si scusi con questo signore, è lui il padrone di casa ora”
E fu così che divenimmo proprietari di un pezzetto del comune di S.
Amai quella casa e quel giardino ed i boschi circostanti per tutta la mia infanzia e la preadolescenza.
Era una casa aperta e quasi sempre avevamo ospiti.
Parenti amici, amici degli amici.
Il massimo era quando venivano a trovarci i cugini da Rimini e si fermavano qualche tempo.
Danilo, Gabriella, Eros, Davide e Gloria.
Mai banda di sciamannati più scombinata aveva battuto quelle campagne.
Che nostalgia per quelle lunghe giornate estive di ozio operosissimo, per quella stagione che sembrava non dovesse mai finire ed invece tutto ad un tratto ti ritrovavi in città seduto al banco di scuola e non riuscivi a capire come accidenti potesse già essere autunno.
Quanto avevo amato quella casa da ragazzo tanto la odiai da adolescente quando ero costretto a rinunciare alle vie del mondo perchè non ancora maggiorenne ed a rinchiudermi in quell’angusto giardino.
Appena potei fuggii dal luogo dei giochi infantili per tuffarmi nella confusione del mondo oltre il giardino.
Per anni vi tornai di sfuggita solo per una breve visita ai miei genitori.
Poi quando nacque mio figlio, ripresi ad amarla ed a frequentarla
Mia moglie e mio figlio vi trascorrevano le estati ed io li raggiungevo nel week end e mi fermavo durante le ferie
Costruii la casa sull’albero, che non avevo mai avuto, per mio figlio e credo anche lui ricordi con amore quel periodo.
Le gite le feste, la raccolta dei funghi, quando uscivamo che era ancora buio per tornare all’ora di pranzo spesso con un cospicuo bottino.
Poi anche mio figlio è cresciuto ed ha avuto lo stesso rifiuto.
Nel frattempo tante cose sono successe, mia madre è morta, mio padre è diventato cieco io ho chiuso l’attività.
Ed eccoci ai giorni nostri ed alla piccola storia che vi voglio raccontare.
La casa esiste ancora ma sono anni che non è più frequentata.
Vado una o due volte l’anno a prendere la numerazione dell’acqua o del contatore elettrico.
A vedere se è sempre in piedi, lo è ma sente il peso degli anni.
Oggi con mia moglie, mio figlio e mio padre siamo qui a S., siamo venuti per separarci per sempre da lei.
Siamo appena stati all’agenzia immobiliare dove l’abbiamo messa in vendita.
Pare che il mercato sia inflazionato, tutti cercano di vendere ed il nostro villino è messo maluccio come manutenzione.
Abbiamo dovuto calare parecchio sul prezzo ma daltronde quei soldi ci servono.
Ora al tavolino della gelateria della piazza centrale ne stiamo ancora discutendo.
Come ai vecchi tempi campari soda per noi tre e gelato per mio figlio michele che ormai ha 18 anni e potrebbe benissimo farsi un Campari, ma la tradizione è quella.
Ammicca quando pesca il gelato usando come cucchiaio una patatina fritta, come ai vecchi tempi!, sembra dirmi il suo sguardo.
“Tutto come ai vecchi tempi” mi apostrofa Martino il titolare, nonchè cameriere, gelataio, banconiere e anima del bar Centrale.
“Già, quasi” rispondo io.
Ma Martino stà già salutando mio padre, scaruffando i capelli a Michele e facendo il galante con mia moglie, il tutto contemporaneamente.
Dopo i convenevoli ci chiede come mai dopo tanto tempo lo onoriamo della nostra presenza.
Con Martino ci conosciamo fin da ragazzi quindi senza menare il can per l’aia gli racconto che siamo alla canna del gas, ci servono soldi e subito per sopravvivere.
Martino mi ascolta interessato e serio, poi prende una sedia e si siede di fronte a me.
“Posso unirmi alla tavolata?”
“Ma certo Martino fai come fossi a casa tua” risponde mio padre sorridendo”
Martino mi guarda negli occhi a lungo poi quando ormai penso gli sia preso un ictus parla:” Danilo, ti faccio una proposta che non puoi rifiutare e che ti cambierà la vita”
Martino è un personaggio così, poliedrico, sempre iperattivo, capace di sparare mille parole al minuto ma quella volta nel suo sguardo c’era un intensità che non conoscevo.
“Dimmi tutto” risposi.
“Allora” lunga pausa in cui pensai stava raccogliendo le idee”Devi conoscere Don Firmino Lavizzari”
Ora, tra proposte che non puoi rifiutare e la conoscenza di un non meglio specificato Don, mi sembrava di essere precipitato nella provincia palermitana.
Mi avrebbe chiesto di gambizzare qualcuno o di riscuotere il pizzo dai negozianti del paese?
“Spiegati per favore Martino, chi è stò Don e qual’è la proposta che non posso rifiutare?” risposi.
“Il Don è il parroco no? Tu fai sempre il restauratore no? Ed hai bisogno di soldi no?”
“Di ancora una volta no? E ti uccido”
“No” disse Martino sorridendo, sorrisi anche io.
“Senti Martino sai che noi comunisti non amiamo molto la chiesa quindi o ti spieghi....”
“Danilo il Don è diverso vedrai che vi trovate, avete almeno due cose in comune”
“ E quali sarebbero?”
“Entrambi odiate Berlusconi ed amate il vino buono”
“Ed in più il parroco deve restaurare 25 lampadari del duomo”
Il colpo era ben sotto la cintura e lo accusai.
“Martino quando si può parlare col parroco?”
“ Anche subito mi tolgo il grembiule e ti accompagno in canonica ma....”
Avevo la testa che mi ronzava, venticinque lampadari, almeno 6.000 euro di lavoro, la manna giunta dal cielo, ma c’era un ma.
“Ma cosa?”
“Ma prima devi almeno dirmi grazie no?”
Lo ringraziai un milione di volte, dopodichè ci incamminammo verso la canonica.
“E tua sorella che fine ha fatto?”
“E’ in Giordania, suo marito ha attenuto un posto di lettore all’università di Amman”
“A bella Amman ci siamo stati l’anno scorso in gita con il Don”
“Ma stai scherzando?”
“No davvero, abbiamo trovato un pacchetto economicissimo, l’anno prima siamo andati a Gerusalemme, comunque eccoci arrivati”
La canonica era un corpo unico con il duomo ma leggermente arretrata e dipinta di un rosa tenue cosicchè si capisse che era solo un’abitazione e non un luogo di culto.
Il duomo era invece imponente con le sue sei colonne di arenaria che reggevano un frontone di uno stile indefinibile, a destra stava la canonica ed a sinistra un campanile altissimo sormontato da una croce di ferro, ancora non lo sapevo ma quella croce mi avrebbe salvato la vita. Ma non anticipiamo i tempi.
Alla terza scampanellata priva di riscontro Martino disse: “Strano, non risponde, a quest’ora in genere è sempre in canonica ma che scemo sono, sarà nell’orto no”
Ci fece segno di seguirlo, aggirammo la canonica e ci trovammo di fronte ad un portale a sesto acuto tipicamente medioevale.
Martino tirò la cordicella del saliscendi ed entrammo.
Fu un piccolo passo per noi umani, fisicamente avevamo percorso un paio di metri scarsi, ma temporalmente direi all’incirca un millennio.
L’orto come lo chiamava Martino, sembrava uscito da una miniatura dell’anno mille.
Al centro il pozzo di pietra corrosa dagli anni e tutto intorno a cerchi che si allargavano alberi da frutta e viti aggrappate a tralicci che dovevano già essere vecchi al tempo della prima crociata.
Una meridiana di pietra del diametro di circa tre metri inclinata veso sud ci comunicava che era mezzogiorno, concetto ribadito pochi istanti dopo dal campanile del duomo.
Il profumo, i profumi erano talmente intensi da stordire, il frinire delle cicale mi riempiva la testa, cercavo di spiegare a mio padre lo spettacolo che avevamo di fronte, lui annuiva, anche senza vedere percepiva quel senso di maestà che solo la natura può comunicarci.
Martino ci guardava di sottecchi, lui sapeva, lui lo aveva visto tante volte e probabilmente godeva di averci reso partecipi di quel segreto.
“Manca solo che spunti Guglielmo da Baskerville fra le fronde”
E, come evocato dalle mie parole Guglielmo spuntò.
“Ciao Martino, chi mi hai portato di bello oggi”
La somiglianza con il Sean Connery nel film tratto da “il nome della rosa” era impressionante.
“Buongiorno Don” dissi
“Buongiorno a te capitano, ed alla tua famiglia”
In quel momento capii che mi era stata fatta una proposta che non avrei potuto, ne voluto rifiutare, capii che era nata un’amicizia che si sarebbe sciolta solo con la morte di uno dei contraenti e purtroppo andò a finire proprio così.
Tempo dopo, quando eravamo ormai amici, chiesi al Don come poteva sapere che “Capitano” era il soprannome con cui mi chiamava mio padre quando ero piccolo.
“Potrei raccontarti che le vie del signore sono infinite ed imperscrutabili” rispose “Ma non mi crederesti, semplicemente vedendoti stagliato sul portone così alto pelato,coi calzoni neri e la camicia bianca mi hai ricordato il capitano di un film di cappa e spada che ho visto da giovane”.
“Forse avrei creduto più facilmente a quella delle vie del signore”
Risposi.
Dopo aver fatto le presentazioni il Don andò subito al punto.
“Vedi Danilo, non ti spiace se ti do del tu vero?”
“Certo che no” risposi”
“Bene, il fatto è che una pia donna, morta il mese scorso, alla ragguardevole età di novantotto anni, ha lasciato alla parrocchia una discreta somma di danaro per il lustro ed il decoro del nostro splendido duomo, ha scritto proprio così nel testamento.
Ora come ti avrà già detto Martino abbiamo venticinque bellissimi lampadari ma ne funzionano solo sei ed anche quelli temo abbiano le ore contate. Saresti in grado di ripararli?”
“Dovrei vederli” dissi ”ma ho passato quindici anni a riparare e restaurare lampade e lampadari quindi una qualche esperienza ce l’ho”
“Bene allora andiamo a vederli, vi faccio strada” Così dicendo il Don si avviò, attraversando il giardino, verso una porticina dipinta di un anacronistico azzurro che ricordava le porte delle case dei pescatori greci.
Da quella porta entrammo in canonica, attraversammo l’ampia cucina dominata da una stufa in ceramica di una bellezza sconvolgente e che doveva risalire ad occhio a metà dell’ottocento e attraverso un’ altra porta, questa volta marrone, entrammo in duomo.
Per inciso, tempo dopo, quando potei osservare più attentamente la stufa mi resi conto di aver preso, come spesso ai restauratori capita, una cantonata.
Sulla stufa era inciso ancora leggibilissimo “Ignatio Badan fecit 1798”
Azz, altro che metà ‘800 !
Il duomo era uno spettacolo, un’unica enorme navata barocca scintillante di ori e marmi.
L’avevo gia visitata alcune volte da ragazzo ma non la ricordavo così ricca ed affascinante.
Ma soprattutto non ricordavo i lampadari.
Quando Martino me ne aveva parlato mi ero fatto un’immagine mentale di 25 lampadarietti Luigi XVI a 6 luci, quelli che ti aspetti di trovare in una chiesa di campagna.
Ma quella non era una chiesa di campagna, era il duomo di una comunità molto ricca ed operosa.
I sedici lampadari di taglia più piccola erano dei Luigi XVI a otto fiamme col fusto in legno intagliato e dorato i bracci in ferro dorato adorni di una miriade di catene di cristalli in parte di rocca, in parte di bohemia che sembrava fossero state lanciate con la fionda e li lasciate a raccogliere la polvere dei secoli.
Disposti in due file di otto, pendevano da una balaustrata posta all’incirca ad una quindicina di metri dal pavimento.
Avvicinandomi al presbiterio finalmente capii in cosa consisteva la sfida, a coppie giustapposte pendevano nell’ordine due Luigi XVI a due palchi da 18 fiamme l’uno, due lampadari di murano sicuramente pre ottocenteschi con il fusto in legno dorato da ventiquatto fiamme l’uno, due Luigi XVI a dodici fiamme, due Murano a dodici fiamme, ed in fine altri quattro Luigi XVI a dodici fiamme.
“Martino se la matematica non è un’opinione io ne conto ventotto non venticinque” dissi, non era un’osservazione molto acuta, ma in quel momento non avevo trovato di meglio per rompere il silenzio che si era creato mentre attraversavamo la chiesa con lo sguardo all’insù.
“Ma i primi quattro dall’ingresso li abbiamo fatti riparare l’anno scorso e funzionano”.
“Allora sono ventiquattro”
“No il venticinquesimo è in sacrestia, seguimi e come fosse il padrone di casa mi trascinò oltre una porticina.
La sacrestia era completamente rivestita da una boiserie di legno scuro legno scuro, probabilmente rovere tinto, nel quale erano incastonati due grossi armadi piemontesi ed uno scrittoio a ribaltina in stile barocco francese che però non stonava per nulla con l’arredo.
Dal centro del soffitto pendeva una grossa lampada votiva sornontata da uno splendido vetro soffiato di forma ogivale.
La Luce proveniva da una coppia di appliques in bronzo dorato al mercurio e da una finestrina di veti policroni legata a piombo Rappresentante S.Rocco con il suo cane.
“E’ dall’atro ieri che non funziona, abbiamo chiamato l’elettricista ma figurati, siamo in stagione, con tutte le ville aperte non ha un momento di tempo”
“Hai provato a cambiare la lampadina?”
“Meno male che esisti, che stupido sono non ci avevo pensato, sai io sono un campagnolo mica un cittadino imparato come te”
Fece una pausa e mi sorrise sardonico “Certo chè ho provato è la prima cosa che ho fatto”.
“Ok scusa, dov’è l’interruttore?” Mi vece un gesto vago verso il lato sinistro della porticina.
“Questo non è un interruttore è un pulsante, il lampadario si accende anche da qualche altro punto ?”
“No, che io sappia no”
“Quando funzionava faceva un tack all’accensione?”
“Si, mi pare proprio di si”
“Bene ora ti faccio vedere una magia da capitano e ti dimostro che i lampadari sono ventiquattro”.
Estrassi il mio cacciavite cercafase che porto sempre con me come portachiavi ed iniziai a smontare il pulsante, avevo il 50% per cento di probabilità, avrebbe anche potuto essere il relais, ma in genere nelle piccole cose sono fortunato, è in quelle grosse che la sfiga mi usa come test della vista.
Come immaginavo il filo nero era staccato, lo rimisi a posto e chiusi, poi con un “tadan” pigiai il pulsante, e la luce fu.
Quando tornammo nel duomo, tra il Don ed i miei familiari, ferveva il dibattito politico ma in realtà era una dicussione in cui tutti i partecipanti avevano, sia pure con sfumature diverse, la medesima opinione riassumibile in quattro parole anzi, in tre parole e mezza: Berlusconi è uno str....( Sapete tengo famiglia e mi ci manca solo una querela per vilipendio al nano asfaltato).
“Allora Don” esordì Martino “Il lampadario in sacrestia è a posto ora potremmo parlare degli altri ventiquattro”
“Bene Capitano, se ne ripari uno ogni dieci minuti, direi che per doman sera il lavoro è finito” disse il Don ridendo.
“La vedo leggermente più difficile, ad occhio e croce direi che ci vorranno tre o quattro mesi, se tutto va bene, ma per fare un preventivo di tempi e costi ci devo pensare su’ un po e fare due conti”
“ Pensaci quanto vuoi ma per Natale vorrei averli finiti, in quanto al costo Martino mi dice che sei onesto quindi mi fido. Ma ora” disse levando in alto il braccio destro “E’ ora di pranzo e non amo tardare a questo importante appuntamento, avessi saputo avrei fatto preparare anche per voi ma Martino mi fa le improvvisate”
“Don non ho la palla di cristallo” rispose Martino piccato.
“Facciamo così” dissi “Mi prendo un paio di giorni poi chiamo Martino e ci diamo un appuntamento qui, ovviamente non in ora di pranzo”
“Affare fatto” rispose subito il Don “ Ma ci vedremo proprio in ora di pranzo se mi avverti in tempo. Si parla meglio con le gambe sotto al tavolo, davanti ad una buona bottiglia e ad un piatto di cinghiale in umido. Ora vado che sono già in ritardo, serena giornata a tutti. Li accompagni tu Martino?” detto questo si avviò a grandi passi verso la canonica.
Quando fu oltre la porta commentai “ Che tipino !”
“E non l’hai visto al massimo” chiosò Martino “Andiamo che anche io ho un certo appetito”
Certo che l’aria di campagna mette fame....
Il viaggio di ritorno verso Genova fu un accavallarsi di commenti e risate, in effetti il Don era un personaggio ed anche Martino,che conoscevamo da anni, appariva in una nuova luce, e poi la prospettiva finalmente di un lavoro duraturo mi metteva di buon umore.
La sera davanti al pc tentai un ipotesi di preventivo, ma era un’impresa impossibile, avevo troppo pochi dati, quindi chiamai Martino: “Ciao Martino, che ne dici se domani vengo sù e prendo un pò di misure e faccio qualche foto? Ho troppo pochi elementi per fare un preventivo credibile.”
“Benissimo” mi rispose “ ma ti conviene venir sul tardi, che c’è un funerale alle 11”
“Ok, vengo per le quattordici, va bene? A proposito chi è morto?”
“Non credo tu lo conosca, Bastianino Rossi lo chiamavano l’Amo”
“Certo che lo conosco, non è il padre del macellaio, quello curvo come un punto interrogativo?”
“Certo, per quello lo chiamavano l’Amo no? 92 anni, la sua parte l’ha fatta”
“Già, a domani allora”
Me lo ricordavo bene Bastianino quando da ragazzino andavo a comprare nella sua macelleria-salumeria, era giovane ma già un pò curvo, sempre gentile e cerimonioso, elegantissimo con la sua camicia bianca sotto la cappa e l’immancabile cravatta a farfalla. Ricordo che tagliava il prosciutto crudo con la cura di un chirurgo coscienzioso che eseguisse un’operazione a cuore aperto.
Finito di tagliare pesava l’involto e dopo, solo dopo, aggiungeva una manciata di olive nere sul salume affettato:”Queste sono omaggio” diceva ogni volta ”mica le ho pesate” e mi sorrideva.
Lo avevo rivisto sporadicamente negli anni sempre più curvo, ma sempre di buon umore, si aggirava nella macelleria gestita dal figlio, senza un compito preciso, se non quello di occupare il tempo.
Pensando a lui mi venne in mente un aneddoto che mi aveva raccontato mio nonno, tanti anni prima e che evidentemente avevo rimosso.
Si era a Rimini, al funerale di non ricordo quale parente, io avrò potuto avere una dozzina d’anni, dopo la messa nel sagrato della chiesa i convenuti parlottavano fra loro aspettando l’uscita del feretro.
Io ero affianco al nonno Gigi, mentre i mie genitori salutavano parenti che non vedevano da anni.
Il nonno, vecchio pescatore, col viso bruciato dal sole guardava per terra con espressione assorta, a me incuteva molta soggezione anche perchè di lui si narravano storie cruente di quando partigiano pare avesse fatto fuori due tedeschi armati di mitra col solo suo coltello da pesca.
“Vedi burdel quello” disse indicando la chiesa ed alludendo al morto “era un federale, un coglione ed un patacca. Da giovane ha dato da dire con tutti, e credo ne abbia mandato in galera parecchi, io mi sono salvato perchè eravamo parenti”
Sputò per terra come a sottolineare che di certe parentele avrebbe fatto volentieri a meno.
“Quando c’era il Duce, che il diavolo se lo tenga, era alto e dritto come un fuso,parlava forte e dava soggezione a tutti, poi dopo la liberazione è venuto in ginocchio a pregare che non aveva colpa, che lo ordinavano così, “
Il tempo sembrava essersi fermato, non sentivo le voci di chi mi stava attorno, sembrava che sul sagrato ci fossimo solo io ed il nonno, cercavo di immaginarmi cosa dovesse essere stato quel dopoguerra.
Il nonno riprese:“Giastima, mi diceva, io ti ho sempre protetto quando potevo ora mi devi aiutare tu”
Giastima, in dialetto Bestemmia era il nome da comandante partigiano di mio nonno e questo la dice lunga sulla sua storia.
“Giastima, se non mi salvi tu io sono morto, giuro che mi pento e starò sempre a capo chino davanti a tutti perchè ho sbagliato. L’ho salvato. Non se lo meritava ma l’ho salvato.”
Tacque, io cercavo di assimilare ciò che avevo sentito.
Poi riprese:”Da quella volta girò sempre a capo chino, sempre più piegato verso terra, dicevano che erano le vertebre, ma io lo sò che era la vergogna, settimana scorsa sono andato a trovarlo in ospedale si vedeva che era in fondo, era piegato come un’amo, poteva dormire solo sul fianco, Mi ha detto: Giastima ti chiedo perdono ora che me ne vado, perdonami. Io ti perdono, gli ho risposto, ma devi chiedere anche agli altri quando li incontrerai.
Quando è morto per metterlo nella cassa dicono che gli hanno dovuto spezzare la schiena che sennò non si chiudeva. Non so se è vero, spero di no”
“Speriamo di no” risposi.
Il nonno, quando anni dopo morì, era ancora dritto come un fuso.
Mi rendo conto che questo racconto è una continua digressione, un giardino dei sentieri che si biforcano e sembrano non portare in nessun luogo.Forse perchè ho paura di quel luogo, di quel tempo, e di un fantasma che, dopo cinque anni, aleggia ancora nella mia mente.
Ma abbiate fiducia, ci arriverò e forse ricordando, riuscirò a capire ciò che non ho capito a suo tempo.
Preso l’appuntamento con Martino dovevo organizzare gli strumenti per il sopralluogo, per una volta tanto volevo fare il razionale per cui stilai la lista degli oggetti che mi occorrevano, non era una lunga lista:
Misuratore ad ultrasuoni X
Rotella metrica X
Macchina fotografica ?
La mia si era rotta un mese prima, certo potevo farmi prestare la Kodakina da mia cognata, ma la qualità di quelle macchinette, soprattutto nella mezzaluce di una chiesa,non era proprio l’ideale, e poi presentarmi con una macchinetta così sarebbe sembrato poco professionale.
Sasso, pensai, Steva Sasso poteva salvarmi.
Steva era un vecchio amico dei tempi del liceo, in quegli anni eravamo inseparabili, poi i sentieri della vita ci avevano allontanato, ma le amicizie vere non si rompono mai ed ogni volta che ci reincontravamo, magari dopo anni, era come ci fossimo salutati la sera prima.
Di mestiere da anni faceva il grafico pubblicitario e sicuramente aveva una macchina fotografica seria.
Lo chiamai in ufficio.
“Ciao Steva sono Danilo”
“Ma non eri morto a Leningrado?”
“1997 ,obviously , ma sai, a volte ritornano”
“Questa è talmente banale che non la commento, qual buon vento ti mena verso le mie sponde Capitano?”
I dialoghi con Steva erano più o meno sempre deliranti ma ci capivamo alla perfezione.
“Mi serve un favore Steva, possiamo vederci?”
“Certo, basta non siano soldi, passi in ufficio? io ci sono ancora per una mezzora, poi pausa pranzo”
“Rimani li stò arrivando, terzo piano?”
“Quinto, il portone è il 15, l’interno 18”
“5, 15, 18 Ok me li gioco al Lotto”
“Contro la stupidità neppure gli dei possono nulla”
“Mister Schiller I suppose? Dai arrivo”.
In quel periodo io e la mia famiglia eravamo ospiti in casa di mio padre, perchè avevamo appena venduto la casa e stavamo cercandone un’altra.
Lo so, che prima si trova quella nuova e solo dopo si vende la vecchia, ma ci era capitata un’ottima occasione e l’avevamo colta.
In ogni caso da via Ravasco, sede temporanea a via S. Luca sede dell’ufficio di Steva mi ci vollero solo 5 minuti a piedi
Altrettanto ci mise l’ascensore ad arrivare arrancando dal piano terra al quinto.
Mi sbarcò in un corridoio sul quale si affacciavano 5 porte.
Su una delle porte si stagliava un 18 alto un metro e largo settanta centimetri, come dire, indicazione a prova di fesso, Steva non si smentiva mai.
Suonai il campanello.
“Allora Capitano, qual buon vento?”
“Ciao compare, ma l’ascensore l’ha progettato Leonardo da Vinci?”
“Già e credo sia lui che lo muove a forza di braccia dalla cantina”
Non ci vedevamo da alcuni anni ma Steva non era invecchiato di una virgola: alto, segaligno, capelli grigi tagliati a spazzola, magro come un chiodo e vestito come un gentiluomo di campagna inglese.
“ Vieni sediamoci” disse facendomi strada dentro l’ufficio.
“Bello commentai un pò claustrofobico ma elegante”
Era una stanzetta di tre metri per quattro con una piccola finestra sul lato corto, tutte le pareti erano coperte di scaffalature piene di libri giornali e quant’altro al centro incastonata tra le scaffalature stava una vetrinetta che conteneva una trentina di robot giocattolo il più recente dei quali doveva avere almeno quaranta anni.
“Vedo che la passione per i robot non ti ha abbandonato.”dissi.
“Mai, come diceva Gort.....”
“Klaatu barada nikto”
“Bene ora che abbiamo assodato che l’Alzhemer non ci ha ancora scovato, veniamo al dunque, qual’è il problema” mi disse andandosi a sedere dietro la scrivania ed indicandomi una sedia dall’altra parte.
La scrivania, le sedie ed il lampadario erano Kartell trasparenti e davano un tono glamour all’ufficetto, sulla scrivania troneggiava un Apple collegato ad un paio di stampanti.
“Perchè due stampanti credevo lavorassi solo on line” chiesi.
“Non me ne parlare, quella” disse indicando la più grossa delle due “E’ una Xerox a cera, divora i toner alla velocità della luce e ne ha quattro ogniuno dei quali costa attorno agli 80 euro”
“Non sapevo neppure esistessero le stampanti a cera, a cosa serve, oltre a farti spendere un bel pò di quattrini?”
“Come sai il mio lavoro consiste nell’impaginare la rivista “mondo natura” rivista che è composta all’80% di foto.Quello che forse non sai è che le foto viste sullo schermo del computer hanno un cromatismo diverso da quelle stampate, la stampante a cera rende il cromatismo della stampa e mi consente di correggere le distorsioni prima di mandare il materiale a Milano.
Ormai ci riesco quasi sempre ad occhio, ma siccome gli amanti del fringuello del botswana o della rana artica sono dei rompicoglioni spaziali sui colore dei loro animaletti, spesso devo fare una stampa per capire la resa.”fece una pausa poi aggiunse
“Dopo questa breve lezione sul meraviglioso mondo dell’editoria veniamo a noi, che favore ti serve?”
Gli spiegai il lavoro che dovevo fare e la necessità di una documentazione fotografica decente.
Mi guardo per un attimo perplesso come dovesse prendere un’importante decisione poi parlò
“Come forse sai tutto questo” e fece un gesto circolare che comprendeva tutto l’ufficio” appartiene a mia moglie” si alzò ed estrasse da uno sportello del mobile alle sue spalle una Canon EOS che doveva costare un botto” ed anche questa appartiene a lei, quindi se dovesse tornare alla base con un minimo graffio non esiterei a darti in pasto a lei, uomo avvisato....”
Conoscevo sua moglie Carla da secoli, era una delle persone più miti del mondo ed aveva orrore della tecnologia, ma il messaggio era chiaro.
“No se preocupe, ne avrò cura come di un figlio”
“Bene ora si va a fare la pappa che nuoio di fame”
“Sempre Gran ristoro?”
“Sempre io sono un uomo fedele, lascia qui la macchina la prendi al ritorno”
Uscimmo, ovviamente scendemmo per le scale, povero Leonardo, doveva aver avuto una mattinata dura, meglio non disturbarlo.
Usciti in stada ci immettemmo nel flusso delle persone multicolori e multirazziali che affollano sempre via S. Luca nelle ore diurne.
“TI va una Lucky” disse steva porgendomi il pacchetto.
“Certo ormai posso permettermi solo le MS”
“Merda Secca” chiosò.
“Morte Sicura”risposi accendendo.
Ormai eravamo in piazza Banchi, svoltammo verso il mare e poi a sinistra sotto i portici di Sottoripa.
La coda in attesa fuori dal “Gran Ristoro” era fortunatamente esigua, una decina di persone. D’altronde erano quasi le quattordici, ed il grosso aveva già mangiato.
Ci accodammo pazienti.
“Con lo scrivere come sei messo?” chiesi a Steva mentre sentivo che alle mie spalle la coda si allungava.
“Bene, mi hanno pubblicato un racconto in un’ antologia, e ne sto scrivendo un altro, carino credo, ambientato nella Genova di inizio secolo”
“Azz, Sasso, stai diventando famoso e non mi dici nulla?”
“Dai quando torniamo sù ti regalo una copia”
Il “Gran Ristoro” era un locale piccolissimo, forse due metri per cinque, ma faceva i panini migliori di tutta Genova, me lo aveva fatto conoscere Steva, dieci anni prima, Ricordo che infervorato in chi sa quale progetto avevo ordinato un panino: cotto e pomodori, per la serie la fantasia al potere,mentre parlavamo avevo iniziato ad azzannare il panino, e come d’incanto avevo sentito il gusto del pomodoro della mia infanzia, il vero pomodoro, non quelle cose rossissime, dal gusto di cartone che compri al supermercato.Quando giunsi al prosciutto i miei sensi partirono verso la mia Romagna, terra delle mie radici, come avevo potuto accettare per anni di mangiare una cosa che chiamavano prosciutto e che era una via di mezzo tra una medusa ed un foglio di polistirene?
“Sei ancora con noi, o il Dio dell’universo ti ha appena chiamato a se?”
“Ci sono Steva, ci sono” risposi ancora immarso nei ricordi gustativi.
“Allora ordina che intasiamo la fila !”
“Tu cosa hai preso?”
“San Daniele e toma ed un bicchiere di Gallo Nero”
Mi sentivo osservato e guardai verso la fila che si snodava verso l’uscita.
Mi guardava con gli occhioni sgranati a tre persone di distanza.
Carina, capelli neri divisi al centro della fronte,naso un pò lungo ma simpatico, occhi forse verde e castano, alta, fisico asciuttto, un vestitino arancione corto, che esponeva delle belle gambe, le scarpe non riuscivo a vederle ma avrei scommesso che fossero arancioni.
“Base terra chiama Danilo, qualche problema, l’ Alzhemer ti ha finalmente scovato?”
“Scusa Steva prendo quello che prendi tu”
La guardai negli occhi e sorrisi, lei ricambiò.
Poi venni trascinato fuori da Steva.
Quella fu la prima volta che vidi Lara, ma ancora non sapevo.
Ancora non sapevo nulla, ma se avessi saputo, forse avrei fatto lo stesso percorso.
“Direi che possiamo sederci su una panchina dell’expò per consumare il nostro frugale pasto” disse Steva.
“Ottimo”risposi” però il Gallo Nero nel bicchiere di plastica....”
“Avresti preferito il Tavernello nel bicchiere di cristallo?”
“No, ma la forma è contenuto”rispondevo automaticamente, stavo ancora pensando a quel sorriso.
“Già ed il mezzo è messaggio” rispose Steva poi a bruciapelo”La conosci o è il tuo proverbiale fascino.”
“Steva, parlami del tuo nuovo racconto”dissi, la miglior difesa è l’attacco.
“E’ un racconto di spiritismo fantascientifico, ambientato a Genova nei primi anni del secolo, il protagonista è un giornalista del Caffaro”
“Interessante, quindi c’ è anche la ricerca storica”
“Anche ed anche i viaggi nel tempo, se ti interessa ti faccio avere le bozze”
“Certamente magari ti correggo qualche errore di ortografia” risposi sorridendo.
L’indomani a mezzogiorno ero seduto nel dehor del bar Centrale a sorseggiare il mio Campari in compagnia di Martino, era ancora presto per la clientela abituale e quindi potevamo fare due chiacchiere mentre sua sorella al banco serviva da sola i rari avventori.
“Dunque hai deciso di accettare?” mi domandò diretto Martino.
“Non so, è un lavoro enorme, per ora faccio qualche foto e prendo un po di misure, poi vedo di fare un preventivo, allora mi sà che sarà il Don a non accettare, verrà una bella cifretta”
Martino voltò il capo per dare un’occhiata dentro il bar, tutto tranquillo.
“Danilo, il Don è un po eccentrico ma non è uno sprovveduto, credo si renda benissimo conto della quantità di lavoro ma la parrocchia proprio povera non è e quei lampadari meritano”
“Si sono splendidi ed è una sfida che mi affascina ma da solo temo di non farcela”
“E chi ha detto che sarai solo? Il Don sta già organizzandoti una squadra di volontari, il Capitano dice cosa bisogna fare e la squadra lo fa, semplice no?”
“Quindi date per scontato che lo farò?”
“Diamo per scontato che si farà, se vorrai essere tu a farlo te ne saremo tutti grati, sennò...”
Era una discussione oziosa, io volevo quel lavoro con tutte le forze ma volevo farlo bene.
“Ho già una mezza idea di come procedere” risposi “Abbiamo un trabatello abbastanza alto? Perchè i piccoli possiamo calarli con le carrucole e lavorarci a terra ma quelli grossi non possiamo spostarli.”
“Abbiamo il trabatello alla chiesa di S. Luca, fuori paese, è altissimo, sei elementi mi pare, basta portarlo qui ed il gioco è fatto”
“ok ora vado a fare un po di spesa poi dopopranzo vado in chiesa a fare le foto”
“Buon appetito” rispose Martino alzandosi” vado anche io, che mi par di vedere un po di movimento”.
In effetti il bar si stava popolando di avventori per il rito dell’aperitivo e della chiacchiera pre prandiale, salutai alcuni conoscenti e mi avviai verso la macelleria per organizzarmi il pranzo.La macelleria era ovviamente chiusa per lutto, ma ormai le mie papille gustative si aspettavano le costine al forno, quindi feci un rapido dietrofront ed attraversai la strada diretto alla macchina.
Ora, il mio angelo custode di solito sonnecchia, ma quel giorno doveva essersi fatto un overdose di caffè, Infatti la rombante Kawasaki mi mancò per un soffio, mi voltai per mandare affanculo il centauro, era ormai lontano ma non abbastanza da non farmi pensare che quei capelli corvini, che spuntavano dal casco e quel vestitino arancio li avevo già visti, non molto tempo prima.
”Vedi che avevo indovinato” dissi fra me e me “Le scarpe sono arancioni”.
“Danilo !” mi sentii chiamare dall’altro lato della strada, era Martino con in mano una bottiglia, ci venimmo incontro.
“Il Don ti manda questa in omaggio è un rosso delle sue vigne”.
“Ringrazialo da parte mia, sai mica chi è quella matta in moto che a momenti mi arrotava?”
“Lara Monti, abita un paio di kilometri fuori paese in una casa isolata sul fiume, sarà un paio d’anni che si è trasferita.”
“Tutto qui?, la gazzetta del paese è a corto di notizie” Gli dissi sorridendo.
“Fa una vita molto riservata, viene poco in paese, il figlio studia fuori e lei lavora a Genova.”
“Ed il marito?”
“Separata, ma con ti starai mica facendo delle storie in testa?, guarda che quella è pericolosa.”
“Lo so ha appena tentato di uccidermi. Ma dai che storie vuoi che mi faccia non ho mica più diciotto anni, senti esiste ancora quella macelleria a San Luca, avevo voglia di due costine per pranzo.”
“Per esistere esiste ma sarà chiusa, comunque Saro abita di sopra suoni il campanello e ti apre il negozio.”
“Per due costine?”
“Anche per una, basta che veda il colore dei soldi”
“Grazie della dritta vado subito e ringrazia il Don della bottiglia” salii in macchina e mi feci i sette chilometri sino a San Luca, chiamarlo paese era eccessivo anche ad essere di manica larga, una ventina di case appiccicate, attraversate dalla provinciale, una chiesetta, un bar trattoria tabacchi con una graziosa pergola di vite fragolina, un fruttivendolo ed il mio macellaio.
Fortunatamente era ancora aperto ed anzi stava in quel momento uscendo dal negozio una signora carica di borse, se era tutta carne doveva aver invitato a pranzo Gargantuà.
Entrai, dietro il banco un’ometto con la coppola stava disossando un prosciutto crudo, alzò gli occhi e mi sorrise.
“Spero di non essere troppo in ritardo, vorrei delle costine di manzo”
“Ma che ritardo” mi rispose con un forte accento sardo”Il lavoro ,lavoro è, pe quante persone?”
“Una, sono solo.” Il sorriso gli si attenuò visibilmente ma prese a tagliare tre costine le pesò e incartò.”Serve altro?” chiese gentilmente, probabilmente si domandava chi fosse quel fesso di turista che si era fatto minimo sette chilometri dal primo luogo abitato per comprare tre costine.
“Un informazione : sa mica quando apre il fruttivendolo qui accanto, avrei bisogno anche di un po di verdura, “ il sorriso illumino nuovamente il suo viso.”E’ di mia moglie, ma le apro io andiamo.” E si avviò “Devo ancora pagarle la carne” obbiettai.
“ Tutto un cunto facciamo alla fine paga”.
Finalmente alle 14 arrivai a casa. Attraversai in qualche modo il giardino invaso di erbacce, mi aprii un varco nell’edera che blindava la scala d’accesso al primo piano e finalmente riuscii ad entrare. Accesi il contatore della luce, attaccai il frigo, lo riempii delle mie provviste, poi decisi di metterci anche il vino, si che il rosso va bevuto a temperatura ambiente ma non quando nell’ambiente ci sono trenta gradi.
Ovviamente mi ero dimenticato di aprire il rubinetto centrale dell’acqua. Ridiscesi a piano terra, già che c’ero accesi il forno e lo caricai di carbonella. Una buona mezzora dopo attaccai il Gazpacio che avevo preparato come primo piatto e le costine.
Uno dei pranzi più gustosi della mia vita la carne era tenerissima e saporita, il vino stupendo il Gazpacio era gazpacio ma si sentiva che le verdure erano veraci e freschissime.
Ora ci sarebbe voluto un pisolino all’ombra di un albero ma il dovere chiamava.
Erano quasi le 15 “ E perbacco” esclamai, citando mio nonno” il padrone ce l’abbiamo con noi no”.
Quindi mi arrampicai nella casa sull’albero di Michele misi la sveglia mentale, ma pure quella elettronica del telefonino, sulle 16 e mi lasciai cadere nel sonno.
Ovviamente sognai Lara, un sogno confuso ed abbastanza angosciante: correvo lungo il sentiero di un bosco che conoscevo bene, sapevo di essere in ritardo per qualcosa, forse un'appuntamento importante, era l'imbrunire ed il sentiero iniziava a scendere sempre più ripido, vedevo avvicinarsi il grande noce che indicava il limite del bosco oltrepassatolo avrei incontrato la statale, lo raggiunsi e sempre correndo svoltai a destra per trovarmi in un vicoletto buio in salita, doveva essere dalle parti di piazza Caricamento, in cima al vicolo intravidi una figuretta ferma sotto ad un lampione, da quella distanza non potevo averne la certezza ma sapevo che era Lara.Avevo il fiatone, il cuore mi batteva a mille, non potevo continuare a correre.
La chiamai, lei si voltò e mi sorrise come la prima volta. Ma era troppo truccata, ed aveva una gonna troppo corta ed una scollatura troppo profonda.
Mi avvicinai camminando, o meglio, camminavo ma non riuscivo ad avvicinarmi, anzi la figura era sempre più lontana, ripresi a correre, anche lei si mosse verso di me, fece pochi passi, sembrava incatenata al lampione, mi tese la mano ma eravamo troppo lontani, vidi la sua bocca articolare delle parole ma non udii alcun suono, il suo viso era ora terrorizzato. Spalancò gli occhi e disse: Aiuto Capitano.
Aprii gli occhi e consultai l'ora sul cellulare 15:58, disattivai la sveglia.Il mio contatempo mentale aveva funzionato egregiamente ancora una volta. Non che fosse un dono di grande utilità, avrei preferito che so il dono di vincere al gioco o di predire il futuro ma quello mi era stato dato e quello mi tenevo, naturalmente del sogno non ricordavo nulla, se non che in qualche modo riguardava Lara.
Alle 16:30 ero al bar Centrale e cinque minuti dopo entravo nel duomo assieme a Martino.
“Il Don è a dir messa in frazione” mi stava spiegando Martino” tornerà tardi, ma tu fai come fossi a casa tua” concluse con un sorriso.
Lavorai di lena per tre ore fotografando il fotografabile.
L'enorme vantaggio della fotografia digitale era che potevi scattare una quanità enorme di immagini e decidere in un secondo tempo cosa tenere e cosa buttare
Da giovane, tra i mille mestieri tentati avevo fatto anche il fotografo ed ai tempi capitava spesso che per risparmiare su pellicola e sviluppo, si tralasciassero particolari che sarebbero risultati in seguito essenziali per la riuscita del lavoro.
Quando il Don fù di ritorno avevo terminato.
“Allora che ne pensi Capitano?” esordì
“Bellissimi, ho fatto quelli della “Virgo potens” a Genova ma questi sono molto più belli e conservati benissimo.Praticamente non necessitano di restauro, basta rifare l'impianto elettrico e pulire e ripristinare le catene di cristalli.”
“Il restauro delle parti lignee e delle dorature lo ha fatto una ditta di Torino una quindicina di anni fa, hanno fatto un ottimo lavoro, anche se ci è costato un botto, ma di elettricità non capivano un tubo quindi ho preferito soprassedere, ma ormai è giunta l'ora di provvedere.”
“Visto che si tratta solo di manutenzione ordinaria penso che dovrebbe bastare una comunicazione alla Soprintendenza senza dover istruire una pratica, sennò può scordarselo di averli pronti per Natale”
“Penso anche io” disse il Don” ho alcuni cari amici in Soprintendenza, chiederò un parere informale, se nulla osta direi che partiamo.”
“Non le ho ancora fatto il preventivo....”
“Ce la fai per Giovedì a pranzo ?”
“Ci provo” risposi.
“Provare non basta, riuscire bisogna, anche perchè ho già prenotato per le 13 alla “Baracchetta” di S. Luca, arrivederci a Giovedì.Usa la Forza Capitano” e con un sorriso da gatto del Chesire si ritirò in canonica.
“Ma guarda te” pensai “solo a me poteva capitare un prete che cita “Guerre Stellari”.
In coda al casello di Genova Ovest ripensai a Lara.
Ero sicuro di non averla mai vista, prima di quella volta al “Gran Ristoro”, oddio, sicuro è una parola grossa, io non sono assolutamente fisionomista ma un viso così lo avrei ricordato ed anche lei sembrava aver riconosciuto qualcosa in me e poi averla rivista il giorno dopo ed averla anche sognata.... anche se non ricordavo nulla del sogno ero certo che la protagonista fosse lei.
“Tipiche seghe mentali da attesa al casello” pensai.
“Come dice?” chiese il casellante.
“Nulla, mi scusi pensavo. a voce alta”
Pagai e mi diressi verso casa.
Passai tutta la giornata di Mercoledì a fare conti che non tornavano mai.
Le variabili erano troppe e non avevo mai affrontato un lavoro così grosso da solo.
Alla fine decisi che potevo chiedere cinquemila euro, era un prezzo molto basso ma volevo fare quel lavoro, e comunque non avevo altro all’orizzonte se non piccoli restauri e qualche riparazione.
Giovedì mattina mi svegliai all’alba e rifeci tutti i conti, avevo paura di non starci con le spese, avevo calcolato i costi come se avessi potuto svolgere il lavoro in laboratorio ma in trasferta era tutta un’ altra cosa, fra spese vive cibo e benzina ce ne sarebbero voluti almeno seimila.
Alle nove mi chiamò il Don sul telefonino “ Ciao Danilo, che ne dici di venire sù un po’ prima, così parliamo del preventivo e poi andiamo a pranzo più rilassati?”
“Certo Don, potrei farcela per le undici”
“Va bene anche mezzogiorno tanto non c’è mica molto da discutere no?”
“Ok, per mezzogiorno sono li”
“Bene, mi trovi nell’orto, a dopo”
“Non c’è molto da discutere dice lui” pensavo mentre in auto aggradivo i tornanti che mi avrebbero portato a S. “ questo lo dice lui, mi sa che invece ci sarà da discutere un bel po’”.
Ero a tre chilometri dal paese ed erano le undici e trenta, troppo in anticipo.
Accostai in una piazzola al limitare di un bosco di castagni e spensi il motore.
“Ok” mi dissi “ è ora di usare la magia, Allora destino cinico e baro : ora scendo e mi inoltro nel bosco per dieci minuti, poi torno indietro, altri dieci minuti, se trovo un fungo commestibile in questo tempo andrà tutto bene, sennò sono fregato e accetto di buon grado la sconfitta.
Ci stai? Anzi ci metto il carico a bastoni, non un fungo commestibile qualsiasi, un porcino od un ovulo.”
Lanciata la scommessa aprii la portiera e feci per scendere dall’auto, non scesi, avrei potuto schiacciarlo, a venti centimetri dall’abitacolo, occhieggiando da un ciuffo d’erba un bel porcino da un paio d’etti sembrava aspettare solo me.
“Porca vacca” pensai “ ma varrà lo stesso? La scommessa parlava di inoltrarsi nel bosco”
Per scaramanzia, dopo aver raccolto il mio tesoro feci lo stesso la passeggiata nel bosco non trovando nulla.
Mi rimisi alla guida ed a mezzogiorno meno cinque varcai il portoncino dell’orto.
Il Don mi aspettava seduto sotto una pergola, sul tavolino al suo fianco c’era una bottiglia di spumante e due flute.
“Accomodati Capitano” disse sorridendo “ ci prendiamo l’aperitivo al fresco mentre parliamo d’affari”
Stappò la bottiglia e con fare da sommelier consumato riempì i bicchieri,
brindammo e bevemmo.
“Questo lo faccio io, non ha nulla da invidiare agli champenoise più famosi”
“ Ottimo davvero” dissi “ non amo molto le bollicine ma questo è davvero buono”
“ Dunque Don, ci ho un po’ pensato”
“si, anche io”
La partita a scacchi era cominciata ma lo svolgimento era ben diverso da quello che mi sarei aspettato.
“Allora Don, il punto è che non sono in grado di fare un preventivo, ma ho una soluzione alternativa- lo stavo rifacendo, stavo nuovamente navigando a vista, come al liceo quando dovevo fare il compito in classe di italiano: usavo le prime due ore per scrivere una brutta copia del testo su cui mi arrovellavo scrivendo e cancellando e riscrivendo, poi all’inizio della terza ed ultima ora, iniziavo a scrivere in bella copia un tema che non c’entrava nulla con tutto ciò che avevo scritto in brutta.
Così ora mettevo da parte tutti i calcoli che avevo fatto per proporre un’altra cosa.-
“Visto che non sono in grado di quantificare la spesa direi di fare una cosa a cottimo, mi spiego: potremmo accordarci sul fatto che io mi impegno a lavorare quaranta ore a settimana e lei si impegna a corrispondermi dieci euro l’ora di paga, poi a fine mese le faccio una fattura dell’importo mensile, ed il mese dopo si ricomincia. Visto che lavorerò in chiesa le sarà facile controllare il lavoro effettivo e verificare che non mi imbosco a leggere il giornale.”
“Quindi sarebbero 1600 euro al mese, per quanti mesi all’incirca?” disse il Don con aria dubbiosa.
“Direi circa cinque mesi, più o meno” feci un rapido calcolo mentale : mille per cinque fa cinquemila; seicento per cinque tremila, cazzo! il totale era ottomila, avevo sparato troppo alto.
“Come mai un tempo così lungo?”
“beh, vede Don l’elettrificazione è relativamente semplice, ma i cristalli sono buttati su alla bell’e meglio e sono sporchissimi, andranno lavati e sicuramente molte giunte andranno rifatte è un lavoro lungo. Naturalmente cercherò di fare il più in fretta possibile, ma se le sembra troppo...”
Il Don era pensoso “Hai detto che mi farai una fattura mensile”
“Si la partita IVA non l’ho ancora chiusa”
“quindi” continuò il Don come parlasse tra se e se “quindi sui milleseicento euro ne pagherai 320 di IVA, in più avrai le spese per mantenerti qui e sul totale che incasserai dovrai pagare le imposte, giusto?”
“Giusto” risposi, non capivo dove volesse andare a parare, pensai al mio porcino abbandonato in macchina sotto il sole. Mi rivolsi mentalmente al Destino “Ehi tu, un patto è un patto, non lo scordare”
“Allora senti cosa facciamo, io ci metto il materiale, ho il conto aperto dall’elettricista, e ti corrispondo tredici euro l’ora, e tu ti impegni a finire prima possibile e nel miglior modo possibile”
“Ma Don, è troppo”
“No non è troppo, è giusto. Il preventivo migliore che mi hanno fatto è stato di 11.000 euro più IVA per sei mesi di lavoro, vengono più di tredicimila euro alla fine, con te ne spendo poco più di diecimila, vedi bene che anche io ci guadagno”
“Non fa una grinza”risposi esterefatto.
“Bene Capitano, allora alziamoci in piedi e stringiamoci la mano, è così che si firma un contratto da queste parti”
Ci alzammo e solennemente ci stringemmo la mano.
“Devo ricordarmi di baciare quel fungo” pensai.
“Ed ora” disse il Don “ In macchina, che la truppa ci starà già aspettando in trattoria”.
“ se non tidispiace andiamo con la tua auto, io se posso preferisco non guidare, prima però passiamo in canonica a prendere il vino”
“come sarebbe a prendere il vino, non andiamo in trattoria ?” commentai stupito.
“ certo che si, ma al mio vino non rinuncio, seguimi in cantina” detto questo girò langolo della canonica.
Quella parte dell'orto non la avevo ancora vista, era un terrazzamento in piano, lungo una ventina di metri e largo forse dieci, che si apriva verso sud sorretto, immaginavo, a valle da una massicciata.La vista era splendida,ed aperta, a qualche chilometro si scorgeva la catena appenninica che si stagliava nitida contro un cielo azzurrissimo.
Tutta la superficie disponibile era coltivata ad orto: al rosso intenso dei pomodori rispondeva il verde brillante dei fagiolini, il giallo ocra dei fiori di zucchino, le multicromie dei peperoni, il viola intenso delle melanzane, più lontano, sull'orlo dello strapiombo,protette da una staccionata di legno crescevano praterie di insalata e di basilico in un tripudio di tonalità del verde, sulla destra guardando verso valle stavano le piante medicinali e gli odori ed un enorme pianta di rosmarino addossata al muro della canonica spargeva il suo profumo nell'aria soleggiata.
“che succede, ti sei incantato?” domandò il Don.
“Perbacco padre Firmino, è tutto così bello, deve darmi il permesso di fare qualche foto, i colori sono splendidi.”
“Certo, quando vorrai, ti consiglio verso sera i colori sono più vividi, ma ora vieni a darmi una mano col vino”.
Entrammo nella cantina da una porticina alta forse un metro e sessanta dipinta di azzurro incastonata fra due panche di pietra consunta, istintivamente abbassai il capo e lo tenni reclinato anche all'interno, ma non era necessario eravamo in un ampio locale sovrastato da una volta a botte sulla parete di sinistra stavano allineate cinque grosse botti di quercia le altre pareti erano ricoperte da scaffalature piene di bottiglie messe a riposare semisdraiate e divise in gruppi a seconda dell'annata.Al centro troneggiava un banco da lavoro in pietra con tanto di lavandino incassato affianco al banco macchine per imbottigliare tini di varie dimensioni, cantabrune ed altri vari attrezzi per la lavorazione dell'uva.
“prendi per favore quel cestello. da sei bottiglie” mi ordinò il Don mentre si aggirava fra gli scaffali.
“questa direi che ci vuole, un rosso morbido per accompagnare i primi piatti, penso ce ne vorranno un paio, e questo” continuò,” per i secondi, ma mi sa che due non bastano, cosa dici: tre o quattro?”
“dipende da quanti siamo Don” risposi mentre lo seguivo col mio contenitore.
“facciamo quattro, melius abbundare quam deficere, cosomai facciamo sempre in tempo a riportarle indietro”
Mi piaceva la logica del Don, e mi piaceva la sua calma nel fare le cose.
“questo” disse indicando la bottiglia “viene da un vitigno di Bordeaux, siamo riusciti ad adattarlo alle nostre terre, sentirai che spettacolo”.
“Il cestello è pieno Don” dissi
“Bene prendine un'altro, ci mancano un po' di bollicine”
Obbedii.
Tornammo all'aperto e la luce ci aggredì subitanea, il Don estrasse dalla tonaca una grossa chiave e chiuse la porta della cantina.
“hai sentito che è passato il lodo” mi disse mentre ancora mi dava le spalle.
“Ho sentito si, martedì scorso, ma tanto fanno quello che vogliono”
“già, ma perchè siamo un paese di zombie”
Il Don si sedette sulla panchetta affianco alla porta.
“vedi Danilo, non mi fa incazzare” usò proprio quel termine” che Silvio sia un delinquente, ne abbiamo avuti tanti, sia al governo che all'opposizione” annuii sedendomi sulla panca al lato opposto della porta.
“quello che non sopporto è il messaggio che comunica: siate falsi, siate furbi, passate sulla testa del vostro prossimo se ciò vi porta un vantaggio! Non è per questo che tanti ragazzi sono morti nella lotta di liberazione, non è questo che sta scritto nella nostra costituzione. ma il paese lo segue, non aspettava che quelle parole, d'ordine, vivi e lascia morire, un paese di cialtroni ha finalmente trovato la sua espressione, Il Cialtrone Massimo, Il Grande Bugiardo”.
“già” risposi “ anche se un Massimo cialtrone lo possiamo produrre anche dall'opposizione, quello che piuttosto che dire una cosa di sinistra si taglierebbe i baffetti”.
“o colerebbe a picco con tutto il suo Yacht”chiosò il prete.
“dai andiamo che deve essere ben tardi, dove hai il bolide?”
“davanti al duomo Don, ma è una vecchia Panda, altro che bolide, la chiesa non la chiudiamo?”dissi mentre uscivamo dall'orto.
“Danilo, la casa di Dio deve sempre essere aperta a chiunque voglia entrare, chissà che qualche peccatore non approfitti dell' intervallo di pranzo per parlare un po con lui”.
“vorrei poterci credere Don, ma il mio realismo me lo impedisce”
“Se non ci credono gli uomini di buona volontà allora è tutto inutile, dobbiamo credere anche per gli altri, tu da laico, io da religioso, dobbiamo credere che riusciremo a cambiare il mondo in meglio con le nostre parole e le nostre opere. C'è una vecchia storiella che mi raccontavano in seminario: il bosco sta bruciando, tutti gli animali scappano verso la radura, un passerotto vola in direzione contraria, con una goccia d'acqua nel becco, la volpe lo vede e lo apostrofa “ e tu dove stai andando non vedi che il bosco brucia ?” ed il passerotto senza smettere di battere le ali risponde “Io vado a fare la mia parte, per cercare di spegnere il fuoco”.
“si Don, è vecchia,la conoscevo anche io, ok, cerchiamo di fare la nostra parte” e sorridendo misi in moto.
Per ora la nostra parte consisteva nel riempirci la pancia, ma si sa, le vie del signore sono misteriose ed imperscrutabili.
“Sei mai stato a mangiare alla “Baracchetta”?” chiese il Don mentre viaggiavamo rapidi verso S.Luca.
“No, l'ho intravista l'altro giorno quando sono andato a far la spesa, ma mi era sembrata chiusa”
“Lavorano solo alla sera, o per qualche occasione speciale, o per qualche cliente speciale” spiegò il Don.
“Capito, e noi cosa siamo, un'occasione speciale o un cliente speciale?”
“Diciamo che siamo entrambe le cose, è una vecchia storia”disse con aria miseriosa.
“adoro le vecchie storie” commentai “potrebbe raccontarmela”.
Invece di rispondermi il Don alzò un dito ed indicò fuori dal finestrino “La vedi quella cappelletta sulla curva? Se vuoi sentire la storia accosta, ormai siamo quasi arrivati e non riuscirei a raccontarla in così poco tempo”.
Fermai l’auto subito dietro la cappelletta, dove c'era una specie di parcheggio.
“La storia risale ad ormai venti anni fa, conoscerai Saro credo se hai fatto la spesa a S.Luca.”
“il sardo che fa il macellaio ed il fruttivendolo immagino, un bel tipo” risposi.
“Non solo quello, è anche il gestore della “Baracchetta”
“Caspita Don manca solo che dica messa e poi ha chiuso il cerchio, San Luca è lui.”
“Vent'anni fa faceva il camionista” continuò il Don senza commentare la mia battuta “Mezzi grossi, viaggiava tra l'Italia e la Germania, qualche volta in Francia, spesso tornava a S Luca con la motrice del Tir, si fermava qualche giorno a casa con la moglie e la figlia e poi ripartiva. Dovevi vederlo portare quel bestione, lui che pesava cinquanta chili con le scarpe, sulle nostre carrettiere andava come un razzo, guadagnava bene, la moglie arrotondava col negozio di frutta e verdura e la bambina cresceva sana e robusta erano una famiglia laboriosa e felice ma poi il diavolo ci mise la coda: la bambina si ammalò, ben presto si capì che era una grave forma di leucemia, girarono per monti e per mari per ospedali e santuari ma la risposta era sempre la medesima, era solo questione di tempo.
Saro iniziò a bere, e si sa che bere e guidare non vanno bene assieme ma per caso o per fortuna non aveva mai avuto un incidente, sino a quel Sabato.
Stava tornando da Savona dove aveva scaricato del latte in polvere portato da Colonia, il rimorchio lo aveva lasciato in porto dove lo avrebbe ripreso il lunedì per tornare in Germania.
Stava facendo buio, ma ormai era ad un solo chilometro da casa.Lo sai che l'ultimo chilometro è il più pericoloso? Si abbassa la guardia, ci si sente già con le gambe sotto il tavolo, ed invece …....”
Mi guardò con gli occhi socchiusi poi continuò
“La ricostruzione dei carabinieri fu che, completamente ubriaco aveva preso la curva troppo larga ed era andato a schiantarsi nell' unica roccia presente nel raggio di quattro chilometri. A me però Saro raccontò, in confessione, una storia molto diversa: aveva comprato a Colonia una statuina della madonna da regalare a sua figlia Margherita. Aveva parlato per tutto il viaggio con la statuina, che sembrava ascoltarlo, le aveva raccontato la storia della sua vita da quando era ragazzino in Sardegna al giorno corrente, le aveva spiegato del male di sua figlia e le aveva chiesto la grazia e come tutti i genitori aveva concluso con il classico prendi me invece che lei.
E la statuina gli aveva risposto :Saro tu sui un uomo buono e meriti il mio aiuto, io ti indicherò il male che affligge tua figlia e tu lo distruggerai.
Saro stava affrontando l'ultima curva, che lo avrebbe portato sul rettilineo che conduceva al paese, quando in mezzo alla strada comparve una figura di luce splendente con le fattezze della sua madonnina che indicava qualcosa sul lato destro della carreggiata, ed allora Saro lo vide, vide il maledetto mostro che stava uccidendo sua figlia. Premette forte il clacson, scalò la marcia e schiacciò l'acceleratore a tavoletta, la motrice scateno tutta la sua potenza, Saro diede un colpo di sterzo ed urlò tutta la sua rabbia mentre si schiantava sull'orrenda creatura distruggendola.”
Il volto del Don era teso, gli occhi fiammeggiavano, mi fece cenno di scendere, aggirammo la cappelletta, in realtà la costruzione era semplicemente una struttura che inglobava un pezzo di roccia alto un paio di metri nel quale era infisso il paraurti di un TIR, sul culmine della roccia splendeva una madonnina.
“Naturalmente gli tolsero la patente, e quindi la sua fonte di reddito, allora gli proposi di rilevare la “Baracchetta”, che era chiusa da anni, e di fare il ristoratore. Gli prestai una ventina di milioni, che mi ha già restituito da tempo, e gli feci un po' di pubblicità.
Ora le cose gli vanno bene ma non si è scordato del vecchio prete che ha creduto in lui, quindi diciamo che sono un cliente speciale”
“E la figlia Don?”chiesi con un filo di voce.
“ Margherita ormai è grande, ma la vedrai con i tuoi occhi fra poco, è lei che serve ai tavoli e direi che è la più bella cameriera della vallata”.
“ma e la leucemia?”
“tu credi nei miracoli?”
“no Don, purtroppo no”
“E’ un vero peccato, comunque Saro e la sua famiglia ci hanno creduto, per questo hanno costruito questa cappelletta”
“e quindi?”
“E quindi ci dobbiamo sbrigare, che siamo in ritardo marcio e la colpa è tua che mi fai parlare”
“mia? Ma Don....” inutile discutere con uno così, risalii in macchina.
Non guardai la madoninna, sapevo che se lo avessi fatto mi avrebbe sorriso, e per ora volevo rimanere da questa parte della realtà, ma per quanto tempo ci sarei riuscito?
La squadra ci attendeva in ordine sparso nel parcheggio davanti alla trattoria.
“alla buonora,iniziavamo a pensare che vi avessero mangiato i lupi” disse un signore molto distinto sulla settantina, alto, magro, con una chioma di capelli bianchi tagliati cortissimi.
“questo è Gianni” disse il Don “il tuo sergente di ferro, e questa è la truppa: Sara, moglie di Gianni e grande cuoca, costoro invece sono Leonardo, bancario in pensione e sua moglie Giovanna titolare della migliore, ed unica, merceria del paese ed infine le due signore sono Sandra parrucchiera per signora ed Anna insegnante di italiano alla scuola media, sino allo scorso anno, ed ora felicemente in pensione e questo è Martino, barista, gazzetta ufficiale del paese e mio personale consigliere ma credo che già vi conosciate”disse il Don ridendo.
“Molto piacere di fare la vostra conoscenza, io sono Danilo e devo dire che sono molto poco fisionomista e negato per i nomi, quindi mi scuserete se farò un po' di confusione” stavo per dire “ Si sbalio mi corigerete” ma a ben pensarci non era il contesto giusto.
In quel momento apparve nel pergolato della trattoria Calamity Jane, che disse :”Allora ciurma, volete venire a tavola che gli antipasti son già serviti?”
Mi avvicinai al Don e gli chiesi sottovoce “ ma quello splendore di fanciulla vestita da cowgirl è Margherita?”
“ e chi sennò” rispose il Don ridendo sotto i baffi.
Era una bellissima rossa sulla trentina, fasciata in un paio di jeans neri che mettevano in risalto le lunghe gambe, la camicetta bianca, abbondantemente scollata, spumeggiava sotto il gilet aderentissimo ed ovviamente nero. Completavano la mise un paio di stivali da cavallerizza ed uno Stetson sempre nero, che le pencolava sulle spalle.L'effetto complessivo era notevole, ed incredibilmente lontano dal kitch che la somma dei capi avrebbe dovuto produrre.
“Mi sa che dovrò ricredermi sui miracoli” mormorai accendendomi una sigaretta.
“non è mai troppo tardi figliuolo, e spegni quella cicca che fra poco si mangia” disse il prete spingendomi dentro il locale.
La “Baracchetta” era una vecchia scuderia riadattata, una strutura quadrata di circa dodici metri per dodici costruita con mattoni pieni, il perimetro, quello che immaginavo dovesse ospitare un tempo le poste per i cavalli, era coperto per circa due metri e mezzo da un tetto di coppi rossi,spiovente verso l'interno e sorretto da una serie di esili colonne di mattoni, il lato a nord dal quale eravamo entrati era stato in parte chiuso con un muro ed ospitava le cucine ed i servizi, sugli altri tre lati erano disposti tavoli massicci apparecchiati con tovaglie di cotone pesante a scacchi bianchi e rossi. Lo spazio che rimaneva al centro, un'area di circa sette metri per sette, era sovrastato da una pergola su cui correvano viticci di uva fragola. Sotto la pergola ci attendeva il nostro tavolo già imbandito .
“Allora” disse il Don, sedendosi a capotavola ed indicandomi “ il nostro ospite va all’altro capotavola, tutti gli altri dove credono”.
In un attimo la squadra prese posto, io mi avviai al mio ma era già occupato da un gattone nero accoccolato sulla mia sedia che mi quardava con i suio occhi gialli, come a dire: questo posto è mio, e per inciso, tu chi saresti?
Ci guardammo a lungo, come si guarda qualcuno, forse un vecchio amico ritrovato, prima con pudore, poi lentamente come se dai meandri dei nostri ricordi affiorasse una qualche riminescenza, con interesse, alla fine scese dalla sedia e come fui seduto mi saltò sulle ginocchiacon la coda alta rullando.
Lo accarezzai piano sulla testa.
“Vedo che hai fatto amicizia con Mauri” disse Calamity Jeane, comparendo alle mie spalle.
“Mauri ?” dissi ” bel nome, diminutivo di Maurizio?”
“no cognome di laziale” disse chinandosi su di me.
Ora io credo di essere un uomo di mondo, anche se non ho fatto il militare a Cuneo, come dice De Curtis, però il suo fiato caldo sul collo e la visione del suo seno a dieci centimetri dal mio viso non mi lasciava indifferente.
“Credo di non aver capito” balbettai.
“Se vuoi ti spiego” disse con la voce di Jessica Rabbit.
“Spiega” implorai
“Ma prima prendiamo le ordinazioni, no. Senno il don si incazza” mi disse carezzandomi la testa.
Mi resi conto di non essere affatto un uomo di mondo, era calato uno strano silenzio e tutti ci guardavano con aria interrogativa.
“Maggy non irretire il nostro restauratore, siamo qui per mangiare non per flirtare” disse il don.
Margherita si allontanò e iniziò a prendere le ordinazioni.
Mauri ronfava sulle mie ginocchia ed io mi chiedevo se non mi fossi innamorato.
Mi risposi di no, volevo solo trovare il modo di parlare a quattrocchi con lei, per chiederle di Mauri ovviamente.
Il pranzo scorreva sicuro su binari collaudati.
Devo dire che dai Plin, figli minori in dimensione, ma non certo in sapore, dei tortellini, al misto di carni arrostite, servito su una piastra di ghisa fumante il menù si era dimostrato ottimo, ed i ini che il don andava via via stappando si sposavano alla perfezione con i piatti.
Ero in una situazione di beatitudine, avevo un buon lavoro, tutti mi stimavano, a prescindere devo dire, ma così era e non ultimo, Margerita ad ogni passaggio, mentre serviva a tavola mi stilettava sguardi che, anche a fargli la tara, avevano un unico significato.
Ora, io amavo mia moglie, mio figlio e la mia famiglia era il mio mondo, avevo 53 anni, credevo di essere in possesso di tutte le mie facoltà mentali, possibile che potessi immaginare una storia con la trentenne Margherita? No mi risposi, ma che cazzo vai a pensare.
Quando però mi si sedette sulle ginocchia e mi disse all’orecchio con la sua voce roca : Allora vuoi sapere perchè il gatto si chiama Mauri ?
Pensai: si voglio saperlo, ma non qui.
“si, mi piacerebbe saperlo” dissi.
“si, ma non qui” disse lei.
Patatrac.
Ogni essere umano ha un limite, una specie di freno a mano che tira quando è vicinissimo al burrone.
Cercai di tiralo, “Non qui e non ora, visto che a quanto pare sono l’ospite d’onore” dissi
“Certo, quando vorrai purchè sia presto, io tia aspetterei per sempre, ma giustamente ci sono delle regole.”
Sarà stato il vino del don, o l’aria della campagna ma mi sentivo la testa vuota, ero stato invitato per presentarmi alla squadra per un lungo lavoro e mi stavo comportando come un cretino infatuato di una donna che conoscevo da un ora.
Caspita non potevo essere così ubriaco.
Cercai di essere coerente, rispondevo alle domande ed alle volte alle risposte, la platea sembrava entusiasta della mia preparazione nel merito. Margherita era assente, all’inizio fu un sollievo, potevo parlare con i committenti senza distrazioni, a poco a poco divenne un limite, avrei voluto vederla, ma non potevo certo sciogliere il gruppo per cercarla.
Ormai era pomeriggio, avevamo mangiato e bevuto abbondantemente,
il don mi si avvicinò, mi prese per un braccio e mi portò fuori, sull’aia.
“Danilo,” mi disse “cosa hai capito ?”
Avevo la testa che mi ronzava, pensavo a Margherita, pensavo al lavoro, e pensavo che ero capitato in wonderland “non lo sò don, credo di aver capito meno di nulla”
Il don parlò con la voce delle omelie:“Danilo, ci sono luoghi fuori dallo spazio, e spazi fuori dal tempo, se riusciamo a tenere i confini ce la faremo”.
Devo dire che non capii il senso del discorso perchè, essendo un uomo, ogni mio senso era puntato verso Margherita.
Ad un certo punto si capì che la riunione era sciolta e che si tornava a casa.
inedita diritti riservati in base alla legge
n° 633 del 22 aprile 1941 n° 537