Era da domenica sera che non stavo bene. Una spossatezza diffusa, difficoltà a respirare, dolori articolari. Certo poteva essere il caldo, era Agosto e la temperatura superava spesso I trenta gradi. Ma sapevo che stavo raccontandomela, sentivo che la bestia stava tornando contro ogni previsione contro ogni probabilità. “Domattina vado all'ospedale” pensai “avrei già dovuto farlo ieri”. Era martedì pomeriggio, martedì 7 Agosto 2012. Mia moglie era al mare con un amica, io e mio figlio avevamo appena finito di pranzare, il termometro in cucina segnava 31 gradi. “Miky Io mi sdraio un attimo che mi sento poco bene” dissi a mio figlio”fai tu la cucina?” “Ok, finisco una cosa al pc e poi sparecchio” rispose andando a chiudersi in camera sua. “Bene ma vedi che sia prima di notte.” Mio figlio aveva quasi ventun'anni e faceva il secondo anno di chimica, aveva un intelligenza pronta che gli invidiavo ed una memoria notevole ma pareva che il suo unico interesse fosse passare ore davanti al pc a giocare o a disegnare. Mi diressi lentamente verso il letto, mi sembrava di avere trecento anni. Da sdraiato le cose andavano meglio. “Cazzo” pensai”possibile che mister Embolo avesse deciso di tornare a farmi visita?” Era trascorso solo un anno dall'embolia polmonare che quasi mi aveva portato in braccio alla “Commare Secca”. Ma poi tutto era passato, sembrava un problema superato ed ora nuovamente quei sintomi. Ma forse era solo il caldo, e l'età, e che fumavo troppo, e bevevo troppo, e non avevo un lavoro fisso, e forse la depressione. Decisi di fare un po di meditazione controllando il respiro, pochi minuti dopo, dolcemente, mi addormentai. Mi risvegliai verso le 16 riposato e più ottimista.
Andai in cucina che, ovviamente, era nelle condizioni in cui l'avevo lasciata prima di andare a riposare. “Michele, porca paletta, la cucina! ” strillai. “Si, un attimo e la faccio” mi rispose dalla camera . “Sbrigati dai, che con 'sto caldo potrebbero svilupparsi forme di vita aliene dagli avanzi.” Misi in frigo I cibi più deperibili e scesi nello studio. Il mio studio era una stanza lunga e stretta ricavata dalla cantina, su uno dei lati lunghi avevo costruito una libreria di mogano in stile marina inglese, lunga sei metri ed alta due finita a gommalacca. Mi era costata tre mesi di lavoro ma era venuta uno splendore. Sul lato corto che dava sul giardino c'era una finestra che prendeva quasi tutta la parete, posta a circa un metro e mezzo da terra, sotto la quale era posizionata una scrivania anni '50, trovata in cantina al momento dell'acquisto della casa e restaurata con cura certosina, la poveretta sopportava il peso del mio vecchio computer e dell’ enorme monitor a tubo catodico.Sull'altro lato lungo si apriva la porta che dava sul corridoio che portava al mio laboratorio di restauro e poi nella cantina vera e propria. Nonostante fosse una cantina il caldo era insopportabile. Mi venne in mente che, un paio di anni prima, il mio vicino mi aveva regalato un condizionatore ad unità esterna, chissà se funzionava ancora, valeva la pena di tentare. Passai dallo studio al laboratorio e da li alla cantina. C'era un discreto casino ma sapevo dove cercare, infatti lo trovai quasi subito. Era composto da due pezzi: un cassonetto alto circa un metro per cinquanta centimetri ed un'unità a valigia grossa, perlappunto come una valigia media. Le due parti erano collegate fra loro da un tubo corrugato lungo all'incirca tre metri. Osservai a lungo il macchinario, avevo veramente voglia di spostare tutto quell'ambaradan sino allo studio? Mi sedetti su di una cassa, avevo già il fiatone al solo pensiero. Il cassonetto era montato su rotelle, se fossi riuscito a mettere la valigia sul cassonetto avrei potuto trascinare il tutto. Mi avvicinai alla valigia, era pesante ma potevo farcela, la poggiai sul cassonetto cercando di metterla in equilibrio. Poi iniziai a trascinere quel totem verso la porta. Tra la cantina vera e propria ed il laboratorio c'era un piccolo gradino di due o tre centimetri, non ci avevo mai fatto troppo caso ma ora per me era una barriera architettonica. Tirai, spinsi, tirai di nuovo, nulla da fare, il fiatone aumentava, sudavo come una fontana ma non avevo la forza fisica per superare quel maledetto gradino. Ora, io non è che sia proprio un omarino, sono alto un metro e ottantotto per 77 chili di peso e mi sono sempre reputato, se non un atleta, per lo meno un signore di mezza età in discreta forma. Quei tre centimetri di gradino erano lì a dimostrarmi che mi sbagliavo. Mi sedetti per riprendere fiato, il cuore batteva all'impazzata e respirare era molto faticoso. Rimasi così qualche minuto, chiedendomi se non sarebbe stato opportuno chiamere mio figlio per farmi aiutare o addirittura lasciar perdere e rimettermi a letto. Mi venne in mente che in laboratorio avevo una lastra di alluminio di circa un metro per un metro lasciata dai muratori che avevano ristrutturato la casa. Andai a prenderla e la misi sul gradino poi trascinai il condizionatore lungo lo scivolo, in fondo le piramidi erano state costruite con quella tecnica no?Attraversare il laboratorio non fu difficile, arrivai comunque allo studio stremato ed in preda alla tachicardia. Pensare di calare l'unità esterna dalla finestra era fantascienza per cui mi accontentai di posizionala nel corridoio rivolta verso la porta che dava in giardino. Mi risedetti a prendere fiato”Pensa che bello se fosse rotta” dissi ad alta voce. Poi inserii la spina nella presa e schiacciai il tasto start. Il cassonetto ronzò si scosse poi dolcemente iniziò a soffiare un venticello fresco.
Mi sedetti alla scrivania ed accesi il pc. Stavo scrivendo, da qualche settimana, un racconto a puntate sul mio profilo Facebook. La regola che mi ero dato, e che cercavo di rispettare, era molto semplice. Scrivevo di getto e poi pubblicavo senza rileggere e senza correggere. Avevo I cassetti pieni di racconti abbozzati e mai conclusi perchè a forza di limare la forma in corso d'opera, la sostanza perdeva consistenza ed poco a poco il mio interesse per l'argomento ed i personaggi scemava, sinchè non li abbandonavo in un cassetto, ripromettendomi di riprenderli in seguito, cosa che ovviamente non avevo mai fatto. Con questo esperimento volevo fare l'esatto contrario, arrivare in fondo al racconto, capire cosa volevano dirmi i miei personaggi e dove volevano andare a parare. Volevo vedere il contenuto. La forma sarebbe venuta dopo, se ne fosse valsa la pena. La storia che stavo scrivendo era in parte autobiografica ed in parte chissà. Avevo in mente un canovaccio ma non sapevo dove mi avrebbe portato lo sviluppo del racconto. Con l'aria condizionata era tutta un'altra cosa, respiravo e scrivevo rilassato. “Mio figlio si affacciò alla scala a chiocciola che portava al mio studio: “Pà, la cucina è a posto. Io esco, vado in bibblioteca” “Miky, mi faresti un favore?” “dimmi” “Mi compreresti le sigarette che io non ce la faccio ad uscire?” Mi guardò interdetto”In queste condizioni direi che portarti le sigarette non mi pare propriamente un favore” “dai Michele se devo morire non sarà l’ora che guadagno non fumando una sigaretta che farà la differenza” “Lo sai che è un ragionamento a pera vero?” “Certo che lo so, ho la tachicardia mica l’Alzheimer, prendi i soldi nei jeans in camera, due pacchetti di MS da dieci”. Mi guardò con compassione per quel povero tossico che ero e sparì su per la scala. Tornò dieci minuti dopo buttò le sigarette ed il resto sulla scrivania. “Ora vado in biblioteca, vedi di andarci piano, non sarai il miglior padre del mondo ma ti ci avvicini, mi spiacerebbe perderti.” Mi sorrise e si dileguò. Scrissi cinque pagine nelle seguenti due ore e mezza, la media era la solita: una pagina ogni mezzora, che il lettore avrebbe consumato in due minuti, daltronde scrivere di getto non voleva dire scrivere a cazzo un minimo di ragionamento era necessario. Alle venti risalii per cenare, diciamo che scalai, fermandomi più volte, gli undici gradini che dallo studio portavano in cucina. Non avevo fiato il cuore batteva all’impazzata, mi gettai sulla sedia respirando a bocca aperta. Mia moglie era spaventata. “Senti non puoi andare avanti così” mi disse”vestiti che ti porto al Pronto Soccorso” “Ora passa” risposi “ se vado al Pronto Soccorso ora, mi tengono li sino alle due prima di visitarmi, come l’altra volta. Domattina vado all’ospedale, alla piastra medica hanno la mia cartella e conoscono il caso, qualcosa faranno.” “Certo che hai la testa dura Pà” disse mio figlio. “Dai mangiamo che è passata” risposi. Dopo cena ridiscesi in studio per rispondere ad un paio di mail e pubblicare lo “spicchio” di racconto su FB, salutai alcuni amici e chiusi tutto. Ero stanchissimo, ma la scala non fu così pesante come la volta prima. L’indomani mattina alle nove e mezza ero pronto per uscire era un pò tardi ma avevo i riflessi rallentati ed avevo fatto tutto molto lentamente. “Allora io vado” dissi a mia moglie. “Sei sicuro che non vuoi che ti accompagni?” mi rispose. “Ma no, prendo la macchina e vedo di parcheggiare vicino all’ entrata, è Agosto un po di posto dovrebbe esserci. Di solito per scendere in strada faccio le scale ma, vista la situazione, decisi per l’ascensore, mi sentivo abbastanza in forma. Quando uscii in strada il caldo mi accolse con un ceffone memorabile.L’aria sembrava liquido rovente. Feci due o tre passi e mi appoggiai ad un muro respirando a bocca spalancata.Poco alla volta la respirazione tornò normale ed il cuore riprese un battito regolare. Feci altri due o tre passi, il garage dove tenevo l’auto era a soli cento metri, ne avevo già fatti una decina, ero a buon punto. Azzardai qualche altro passo, il colpo di maglio arrivò sullo sterno con una potenza inaudita, mi si piegavano le ginocchia, mi sedetti su di un gradino “Signore, dio del cielo in cui non credo” mormorai” Se deve essere, che sia rapido, dritto al cuore ed amen.Ti prego che sia al cuore non al cervello, fammi morire con quel pò di consapevolezza di me che mi resta”. I pochi passanti mi guardavano straniti e poi tiravano dritto. Poco alla volta il dolore decrebbe, riuscivo di nuovo a respirare ma sentivo il cuore pulsare nelle orecchie come un tuono. Riuscii ad estrarre il telefonino e chiamai mia moglie “Lilli, vieni a prendermi, non ce la faccio da solo” “Cristo, ma dove sei?” “A metà strada.”risposi “A metà strada dove? Sei ancora in macchina, hai accostato?” “Sono a metà strada tra casa ed il garage, ci ho messo un quarto d’ora a fare cinquanta metri” risposi ”Se ce la faccio arrivo al garage e mi siedo in macchina, qui il sole picchia da bestia”. “Mi vesto e arrivo, non ti muovere”. Invece mi mossi, riuscii ad arrivare alla macchina ed a stamazzare al posto di guida. Il ragazzo del garage mi guardava stranito”Tutto bene Danilo?” “Si” risposi in un soffio ora mi riprendo. “Se hai bisogno sono qui” disse. “Grazie va già meglio” Pochi minuti dopo arrivò mia moglie. “Madonna santa Danilo, come stai, non vorrai mica guidare tu?” “Bene, sto bene ora, ormai sono seduto qui e se non faccio sforzi non c’è problema, dai sali che andiamo” Probabilmente pensava che fossi definitivamente impazzito ma apprezzai il fatto che salisse fidandosi ancora una volta di me. Il viaggio fino all’ospedale Galliera fu tranquillissimo, evidentemente se non facevo sforzi la bestia che era in me rimaneva assopita. Parcheggiai sulle striscie azzurre e mia moglie andò a fare il ticket, aspettai in macchina temevo il momento della discesa. Ci avviammo verso l’ingresso di via Volta, fatti quattro passi il maglio riprese ad accanirsi contro la mia povera cassa toracica, credo facemmo una decina di tappe per raggiungere la piastra medica, li un infermiere che conoscevo di vista mi venne incontro. “Ma noi ci conosciamo mi pare?” disse prendendomi sottobraccio ed accompagnandomi verso una porta aperta alle sue spalle. “Si” sussurrai “sono Z.”e mi accasciai su di una poltrona dell’ufficio della caposala. “Ora ricordo, io sono V. posso fare qualcosa per lei?” “Spero proprio di si V.” risposi in un rantolo “lo spero proprio". “Rimanga qui, che vado a cercare la sua cartella ed un medico” “E dove vuole che vada?” gli risposi con un sorriso storto. Mi fece il segno di Roger col pollice levato e sparì dalla mia vista.
.inedita diritti riservati in base alla legge
n° 633 del 22 aprile 1941 n° 537
demoniEra una
mattinata di mezza estate, la città era deserta, le strade ingombre come sempre
di spazzatura emanavano un fetore insopportabile.Camminava
lentamente verso il suo ufficio, chiedendosi per la millesima volta, come erano
potuti cadere così in basso.
Eppure i segnali
erano chiari, eppure, tutti sapevano di stare correndo verso il baratro, ma
come topi incantati dal pifferaio, avevano continuato a correre, e stavano
ancora correndo.
Alcune
figure razzolavano fra la spazzatura, neri e sporchi, cercavano qualcosa che si
potesse vendere o barattare. Ma ormai nessuno buttava più niente che avesse un
qualche valore.
Attraversò
Porta di Vacca, e si infilò in via del Campo.
Il portone
era splendido, in un contesto orrendo.
Estrasse le
chiavi, poi ci ripensò, forse stella era già in ufficio.
Suonò al
citofono.
“Ufficio
dell’investigatore Sam spade, Terzo piano scala B, se creditori, testimoni di
Geova o assimilabili, siete pregati di andare a fare in culo”
“Sono io stella,
apri”
“Immantinente
capo”
Immantinente
chissà dove lo era andato a pescare un termine così.
Stella era impagabile, benché avesse venti
anni meno di lui, le faceva da madre e da padre da amico, e soprattutto da
segretaria.
Entrò in
ufficio.
“Ciao
Tesoro, come va?”
“Bene capo,
tu, non molto direi a guardarti in faccia”
“Come cazzo
ti è venuto in mente Sam spade?”
“Uh, un
libro che ho letto ieri sera, sei lui sputato Arci”
“Beh” pensò
lui “in effetti fa più colpo che Arcibaldo Rossini” e maledisse per l’ennesima
volta i genitori adottivi per avergli imposto un nome da deficiente.
“Abbiamo
qualcosa da fare? Che ho il frigo vuoto e devo pagare l’affitto.”
“Certo che si
Capo, di là ci sono due clienti che ti aspettano, ma non puoi entrare così, sembri
un barbone, andiamo in bagno che ti faccio la barba, e ti rimetto in sesto.
Aggirò la
scrivania con fare sensuale, era come sempre bellissima, Bionda, slanciata, con
due tette da urlo, indossava un top malva con una notevole scollatura ed un
tubino nero, sandali con tacco alto neri.
Arci pensò
per la millesima volta che era la sua donna ideale, il suo sogno.
“Sai” disse
mentre lo trascinava verso il bagno “Pensavo che forse un pompino ti potrebbe
tirare un po’ su”
“Beh, se non
hai altro da fare, io sono disponibile”
“Capo, non
ho detto che te lo farei io, hai mille donne che ti sbavano attorno, scegline
una no?”
Ancora una
volta ci era cascato con tutte le scarpe.
“Tu mi farai
impazzire Stella “disse.
“Ora zitto e
fatti insaponare la faccia”
La guardò
mentre lo radeva con gesti sicuri, avesse usato lui il rasoio a lama libera
come minimo si sarebbe sfregiato.
Sentiva il suo
fiato caldo sul collo, il desiderio di lei era troppo forte.
“Capo,
avverto movimenti sospetti sul cavallo dei pantaloni, non ci provare.”
“Ecco fatto
ora sei sbarbato come un bimbo, e presentabile, vai di là e spremigli un
mucchio di soldi”
“Ma, stella”
“Vai! io
intanto mi faccio un bidet, chissà come mai, mi si sono bagnate le mutandine, e
rise”
“Stella”
“Vai!!! A
proposito, la lei, è un pezzo di gnocca, magari te lo fa lei il pompino e rise”
“Questa è
matta completa” pensò mentre si avviava verso lo studio.
Pensare che
lui, prima che tutto precipitasse, faceva lo scrittore, era molto considerato e
non se la passava male, villa con piscina ad Arenzano, Maserati biturbo, che
consumava come un’astronave, moglie, figli viziatissimi, svariate amanti.
Poi tutto
era finito, il mondo si era rovesciato, la Grande crisi aveva inghiottito
tutto, non c’era più posto per gli scrittori, la legge della jungla era
tornata.
Aveva perso
tutto, moglie, amanti, casa, i figli erano andati negli states.
Aveva scritto
libri che parlavano di investigatori privati, li conosceva bene, era giunta
l’ora di conoscerli meglio, aveva trovato un ufficio, fatto un corso,
presentato regolare domanda, appeso una targhetta fuori dal portone ed era
diventato Archi Rossini: Investigatore privato.
Il suo primo
caso, riguardava stella, i genitori disperati non sapevano dove fosse sparita,
le ultime notizie la davano ad Ibiza, in compagnia di un truffatore in odor di
mafia.
Fu un’indagine
facile, il truffatore era grande e grosso ed abelinato come si dice a Genova,
non oppose resistenza, anche perché opporre resistenza con la canna di una 38
in una narice, non è cosa furba.
La riportò a
casa, ed incassò un lauto compenso.
Pensava fosse
finita lì.
L’indomani stella
si presentò in ufficio.
“Senti
Archi, prima di tutto devo ringraziarti”
“Di niente
stella”
“Poi devo
dirti che sto cercando casa, non sopporto di stare con quei molluschi dei miei
genitori, e dovresti aiutarmi, a pagamento, si intende”
“Stella, non
è un’agenzia immobiliare, hai visto la targhetta sulla porta?”
“Poi “continuò
stella come se nulla fosse “Hai bisogno di una segretaria, io sono disponibile”
Archi aprì e
richiuse la bocca.
“Tesoro, sono
alla canna del gas, non posso permettermi una segretaria, con i soldi dei tuoi
ho pagato alcuni debiti, ma non potrei mai permettermi di darti uno stipendio”
“800 euro,
non sono molti, ma potrebbero servire” disse lei e sorrise.
“Certo non sono
molti, ma non li ho”
“Ma cosa hai
capito? Gli ottocento euro te li do io, se mi assumi”
Archi rimase
un attimo interdetto.
“Ma tu sei
pazza” disse
Lei gli si
avventò contro come una furia tempestandolo di pugni.
“Me lo devi
bastardo, vuoi capire che me lo devi!”
“Certo
calmati, vediamo cosa si può fare” disse lui completamente intronato.
“Si fa che
domani prendo servizio, è il primo di Agosto no, il 31 riceverai i primi 800
euro”
Era senza
parole, la guardò, nella furia scomposta del suo attacco, le si era sbottonata
la camicetta, ed un seno, piccolo ma splendido faceva capolino.
E li fece il
primo errore, tentò di baciarla, lei si divincolò.
“Non ci
provare disse, non ci provare, sinché non te lo chiedo io”
“Tu mi farai
impazzire” disse Archi.
Lo avrebbe
detto un altro milione di volte.
“Bene,
allora domani si apre alle 8:30, ti lascio un mazzo di chiavi, così se arrivi
prima apri tu”
“Grazie
Archi, vedrai che hai fatto un affare, a domani”
E si avviò
verso la porta, la aprì e si fermò un attimo.
Era bellissima.
“Senti, disse”
“Dimmi tesoro”
“Ti spiace se
da ora in poi, ti chiamo capo?”
Archi era basito,
tutto si sarebbe aspettato ma non quello.
“Certo che
no”
“Capo, vieni
qui, voglio farti sentire una cosa”
Archi si
alzò come uno zombie dalla scrivania e le andò accanto.
Lei gli
prese la mano e la portò sulla sua patatina umida.
Archi tentò
nuovamente di baciarla, ma lei si divincolò ed uscì.
“A domani
Capo” disse dalle scale.
Lui rimase
immobile, poi lentamente come un automa, si leccò le dita.
Tutto questo
era successo esattamente un anno prima.
Poi il
lavoro aveva iniziato ad ingranare ed ora l’Agenzia aveva una certa fama,
grazie ad alcuni casi risolti brillantemente, e brillantemente riportati sul
quotidiano di Genova: il secolo XIX. Scritti dal suo buon amico Giorgio Raffo.
Ma torniamo
a bomba in ufficio.
Archi si
schiari la voce con un colpo di tosse ed entrò nello studio.
Buongiorno
signori, sono Archi Rossini, cosa posso fare per voi?”
Dopo essersi
scambiati i convenevoli di rito Archi, sedette alla scrivania.
La coppia
era male assortita, lui bassino, imbalsamato in un gessato che neppure Al Capone
avrebbe indossato, sudato ed a disagio. Lei Bellissima, capelli neri, occhi
neri, calze nere, immaginò autoreggenti, fasciata in un abitino nero di taglio
sartoriale che doveva costare come un paio di mesi di affitto di casa sua.
I due si
guardarono, come a chiedersi chi avrebbe esordito.
“Signori io
sono qui per ascoltarvi, ma se non parlate…”
“Vede, non è
facile, anzi, è molto difficile” esordì l’uomo.
“Cazzo”
pensò Archi, dopo aver ascoltato la voce dell’uomo, “ecco chi è, l’onorevole
Pirlo, quante volte lo aveva sentito concionare in tv ed esordiva sempre con
quella frase fatta: il problema non è facile, anzi molto difficile”
“Bene, siete
nel posto giusto”
Stella bussò
alla porta, poi entrò.
“Posso
portarvi qualcosa, caffè the?
“Per me un
caffè lungo in tazza grande” disse Archi.
“Caffè,
risposero all’unisono i clienti.
“Allora
signori, vogliamo arrivare al punto?”
“Certo, ha
ragione detective “disse il piccoletto.
“Detective?”
pensò Archi, “Ma in che mondo vive?”
“Il fatto è
che penso che mia moglie mi tradisca”
“E vvvvvai”
pensò Archi, “Ti immagini chissà cosa e poi sono sempre storie di corna”
“Capisco”
disse pensieroso.
“E su cosa
basa questa supposizione?”
La donna
continuava a guardarlo con insistenza, scavallava ed accavallava le gambe in
continuazione, ed il tubino continuava a salire confermando la sua prima
intuizione, erano autoreggenti.
“Non è una supposizione,
è sempre stata una troia, ma è bellissima, ed io ne ero innamorato, quindi ho sempre
sopportato tutto. Ma ora io ho un altro amore, più grande, più vero” e volse lo
sguardo verso la donna.
Lei gli sorrise.
“Quindi”
disse Archi le servono le prove del tradimento di sua moglie per la causa di
divorzio, per non avere pendenze, tipo alimenti eccetera?
“Esatto Sam”
“Sam?” Pensò
lui, poi capì.
Entrò stella
con i caffè.
Li servì a
tutti con grazia e cortesia, poi diede un’occhiata distratta alle cosce in
bella vista della cliente, e la incenerì con uno sguardo, poi Guardò Archi
negli occhi, sembrava dire “Provaci, e ti strappo le palle e te le faccio
mangiare”.
“Ci sono
figli, attività comuni, proprietà condivise?” Chiese Archi.
“No nulla”
rispose, la donna. “Separazione dei beni da anni, nessun erede.
L’uomo
annuì.
“Posso farle
una domanda indiscreta?” disse Archi.
“Certo,
dica”
“La signora
che la accompagna chi è, e che ruolo ha in tutta la storia?”
“È
importante detective?”
“Ariddaie
col detective “pensò lui.
Poi disse
“non è fondamentale, ma più elementi ho, e meglio capisco la storia.”
“Gladia è la
mia commercialista, ma farei meglio a dire badante, Sam, io sono quasi cieco,
senza lei, non saprei come fare”
“Come si
chiama sua moglie” Disse Archi, anche se lo sapeva benissimo, era un personaggio
pubblico molto più importante del marito.
“Lisa
Grandi”.
“L’attrice?”
disse Archi, simulando stupore.
“Sì, l’attrice
“disse e calcò il tono sulla parola.
“Bellissima
donna” commentò Archi.
“Già” ribadì
l’onorevole.
“Bene mi servirebbero
altre informazioni però. L’omino estrasse dalla cartella una busta gialla
rigonfia, e la lanciò sulla scrivania.
Archi dette
una rapida occhiata: foto, biografia, contatti, la commercialista/badante aveva
fatto un ottimo lavoro, e probabilmente attendeva i frutti di tanto impegno.
“Direi che
ho gli elementi essenziali per aprire una pratica, la signora vive con lei?”
“Certo, essendo
mia moglie.”
“Bene,
immagino abbia una mezza idea di chi sia L’uomo con cui la tradisce”.
L’omino si
rizzò sulla sedia, poi disse “non è un uomo, è una donna”.
“Ottimo” disse
Archi “la mia tariffa è di 150 euro al giorno, più le spese vive. L’anticipo a
fondo perso è di 500 euro”
“Benissimo
“disse l’uomo posando una banconota da 500 euro sulla scrivania.
“Li lasci
pure alla mia segretaria che le rilascerà regolare ricevuta.”
L’ometto, si
alzò, riprese la banconota e tese la mano.
“Bene disse
alzandosi, domani sera le faccio avere il primo rapporto”
“Grazie Sam,
ma mi perdoni, perché nella targhetta c’è scritto Archi, se si chiama Sam?”
“Un
fraintendimento con la mia segretaria, rimedierò”
L’uomo si girò
appoggiandosi alla ragazza, insieme salutarono ed uscirono.
Dopo qualche
minuto stella fece capolino nella stanza
“Com’è capo?”
disse.
“Meglio di
quanto sembrasse”
“Bella la vista
fra le cosce no?”
“Stella
piantala”
“Piantala cosa,
avevi uno sguardo da maiale in foia”
“Ma che
cazzo vuoi da me, non posso toccarti, non posso baciarti, e ti comporti come fossimo
una coppia.”
“Ma noi siamo
una coppia”
Disse stella
iniziando a spogliarsi.
Mi faccio
una doccia rapidissima e poi andiamo a farci una pizza, che muoio di fame. Che
ne dici?”
Lui rimase
abbagliato dalla sua bellezza “non la merito” pensò mentre aveva un erezione.
Stella lo
abbracciò e gli sospirò sul collo “
Tentò di
baciarla, ma ovviamente non ci fu verso.
“Vada per la
pizza” disse.
Il
telefonino vibrò: un sms.
Lo aprì.
“E’
impegnato stasera a cena <detective>? Gladia”.
Ora, se fosse
stato un uomo onesto, come amava dipingersi, avrebbe ignorato il messaggio, e sarebbe
finita li.
Invece, lo sventurato
rispose.
“Dipende
Gladia, se è una cosa importante posso liberarmi” scrisse.
“No, non è
importante, se ha da fare, rimandiamo, è che, come dire?
Una stupidata,
lasci perdere, buona serata”
“Come vuole”
scrisse lui, “ma sono curioso di sapere a cosa devo questo invito”
“Nulla,
Archi, pensavo che mi sarebbe piaciuto farle un pompino”
Archi Rossini
crollò sulla sedia, mentre stella usciva dal bagno.
“Che succede
capo? Mi sembri più stravolto del solito”
“Stella, sei
nuda, o me la dai, o ti rivesti”
Lei lo
guardò ammiccando.
“Non c’è la
terza opzione?” E ridendo corse a vestirsi.
Sentendosi stupido
come un quattordicenne al primo appuntamento scrisse un sms.
“Forse non
ho capito bene l’ultima parte del messaggio, potrebbe ripetere per favore?”
“Non ha
capito pompino? sa quando una donna prende il cazzo in bocca e succhia, più o
meno è quello, poi ci sono delle varianti, che gradirei esaminare con lei, sempre
che voglia”
“Eccomi
pronta, lavata e profumata, andiamo?” disse stella.
Archi era
basito.
Stella era
un raggio di sole, e voleva mangiare la pizza, Gladia vagheggiava di pompini.
C’era una
certa differenza.
“Vado un
attimo in bagno ed arrivo” disse lui, e si chiuse dentro.
Sentendosi
un verme digitò: “Ora ho da fare, magari potremmo risentirci fra un paio
d’ore”.
“Fra un paio
d’ore è troppo tardi, ciao signor detective, pensavo avesse le palle, mi
sbagliavo”.
In preda
alla disperazione Archie fece ciò che non avrebbe dovuto, chiamò il numero da
cui aveva ricevuto gli sms.
“Buonasera,
con chi parlo?” rispose una voce maschile che riconobbe subito: Pirlo. Buttò
giù.
“Tesoro, sei
morto? Nel caso mi attivo con le pompe funebri” Trillò stella al di là della
porta.
“Cristo Dio,
non parlare di pompe” pensò Archi.
“Allora dove
si va?” Disse Archi uscendo dal bagno.
“Da nessuna
parte tesoro”
Stella era
nuda, sdraiata sulla scrivania.
“Capo, sai essere
dolce? Ho sofferto molto, non vorrei soffrire anche con te”
Archi si sentiva
ubriaco, le gambe gli tremavano, il cuore gli batteva a mille.
“Sarò dolce
con te come non sono mai stato”
La abbracciò
e la penetrò dolcemente. Poi svenne.
Si risvegliò
dopo pochi minuti.
La prima cosa
che vide, fu il viso angosciato di stella, poi tornò nell’oblio.
“Signore
iddio in cui non credo” Pensò, “se devo morire ora benissimo.
Sono pronto,
morire per una scopata è la miglior morte che uno possa augurarsi ma se è un
embolo come temo, fa che arrivi ovunque ma non al cervello, è l’unica cosa a
cui tengo, e se mi risveglio sbavando su di una sedia a rotelle, giuro che
vengo su e pianto un casino spaziale” sospirò “Io ti ho avvertito, famo a capirsi”
e risvenne.
Si
risvegliò. Stella lo guardava perplessa, si era rivestita.
“Ciao
tesoro” disse con la lingua impastata.
“Ciao Capo,
sei ancora fra noi?”
“Credo di sì”
disse alzandosi.
“Che ne dici
se facciamo una passeggiata sino al pronto soccorso del Galliera?”
“Perché si è
fatto male qualcuno?” rispose Archi.
Lei lo
guardò con tenerezza.
No, è che a
una cert’ora quelli di sant’Egidio distribuiscono panini imbottiti ai poveri
che stazionano lì attorno, e visto che siamo a stomaco vuoto, pensavo di
riempirlo”.
Archi la
guardava stralunato, si rese conto di essere seminudo, e si rivestì.
“Ma non si
era parlato di una pizza” disse lui.
“Capo,
quante sono queste?” e gli pose davanti al viso tre dita.
“Undici” rispose
lui con un sorriso.
“Lo sai che sei
una testa di cazzo?” disse lei ridendo.
“Certo che
lo so”
“Senti, ora
non fare il cretino, sei appena svenuto, stai male, andiamo al Pronto soccorso
ti prego”
“Sto
benissimo” disse alzandosi in piedi.
La testa gli
girava, e ci vedeva doppio.
“Poi stasera
è una sera speciale”
“Dai che si
festeggia, in pizzeria”
Lei lo
guardò.
Lui la
guardò.
“Figura di merda eh, per un anno ti corteggio,
e quando finalmente possiamo farlo. Svengo”
“Vedi perché
mi piaci” disse lei sorridendo “perché sei deficiente, io adoro i deficienti.
Dai, vada per la pizza, sottoripa?”
“E dove
sennò” rispose lui prendendola sottobraccio.
Precediamo
la coppia di mezzora ed andiamo a curiosare in sottoripa.
Stessa Sera
d’estate, la città sonnecchia prostrata dal caldo.
Rari passanti indugiano sotto i portici del centro
storico.
La movida è distante, qui è tutto tranquillo.
A un, tratto, uno sbadabang percuote l’aria.
La saracinesca del ristorante cinese, come un fuoco
d’artificio sale e si ferma con clangore contro il massetto.
Lu, il cuoco cinese, largo quanto è alto, osserva
soddisfatto lo scompiglio che ha creato nella via.
I rari passanti si interrogano: ma da quando esiste questo
ristorante? io non l’ho mai visto, certo che ‘sti cinesi ci mettono un attimo,
stanno conquistando la citta, a poco a poco come i ratti, si intrufolano
ovunque, aprono negozi, ristoranti, bar, chissà con quali soldi poi, bah.
Il grosso cuoco cinese, vorrebbe quasi spiegare che il
ristorante, non c’era ieri.
E non ci sarà domani.
Ma a cosa servirebbe?
Gli umani non capiscono che la vita è oggi.
Come dal nulla, compare Linda, ovviamente non è il suo
vero nome, ma una traduzione approssimativa.
Lu la osserva attentamente, è come sempre bellissima nel
sarong rosso fuoco, i capelli corvini le scendono sulle spalle nude, le labbra
lucide gli occhi profondi e neri, il corpo perfetto.
“Chissà quanti anni
ha” pensa Lu.
“Ciao Lu” disse lei con un sorriso” di nuovo in missione
assieme”
Lu pensò per la millesima volta che si sarebbe messo a
dieta, che sarebbe andato in palestra che sarebbe diventato un fusto, e che
finalmente avrebbe trovato il coraggio di chiederle un appuntamento fuori dal
lavoro.
Questi pensieri complessi gli stimolarono l’appetito.
“Già di nuovo insieme” farfugliò.
“Forza, re dei cuochi” disse lei “fila in cucina che sono
già le 19, non abbiamo molto tempo”
“Certo regina delle cameriere, vado, ma dopo di te” disse
e si fece da parte con un goffo inchino.
Loro erano ancora molto distanti, forse un kilometro,
avevano girato in tondo tutta la sera, la città sembrava deserta, ma in realtà
il rischio di essere scoperti era grande.
Un amore clandestino comporta sempre qualche rischio, ma
quella sera avevano entrambi la percezione che in qualche modo sarebbe
scoppiato un casino, non potevano continuare a girare a vuoto, dovevano trovare
quattro mura ospitali fra le quali nascondersi.
“Caspita” pensò lei” Ma perché non ce ne andiamo in un
motel, certo è meno romantico, ma almeno siamo fuori vista”
“Cazzo” pensò lui” Ma perché non ce ne andiamo in un
motel, sicuramente è meno romantico, ma almeno, riduciamo i rischi.”
“Umani, razza incomprensibile” penso il Capo.
Poi si mise in contatto telepatico con Linda.
“Allora mia querida, come va?”
“Tutto a posto capo, fra dieci minuti siamo pronti, loro
dove sono?”
“Ancora distanti, credo stiano per gettare la spugna, lei
è molto preoccupata, e lui non sa che pesci pigliare”
Linda era perplessa, non aveva mai sentito il capo cosi
indeciso.
“Abortiamo capo?” chiese titubante.
La voce del capo le rimbalzò in testa col fragore di un
tuono.
“Arcidiavola Linda! fai ancora un’affermazione così e ti
spedisco agli inferi, da cui provieni e farò in modo che il tuo cuoco diventi
il tuo compagno e giaccia con te”
Linda scosse la testa stordita, ma quanto era incazzereccio
il capo!
Poi pensò a Lu, vero era brutto e grasso, ed un poco
puzzava, ma aveva un animo nobile, un’intelligenza pronta, e sapeva che era
innamorato di lei.
In fondo, stare agli inferi e giacere con Lu, non era una
brutta prospettiva.
“Linda” sentì nella sua testa “figlia adorata, sai che
leggo il tuo pensiero, come fai ad essere così deficiente?”
“Pà, probabilmente scarso patrimonio genetico. Allora si
fa o no?”
“Certo che sì, stanno arrivando”
“Bene” disse Linda. “Ma perché siamo cinesi?” chiese.
“Le solite menate del Consiglio, -rotazione delle razze-,
mi pare si chiami, ora vai, conto su di te, e sul testone”
“Non ti permettere di chiamarlo così” disse, ma la
comunicazione si era interrotta.
I due amanti procedevano vicini, le mani si sfioravano,
gli occhi non si lasciavano un istante, per questo calpestarono una serie di
merde di cane.
Dice il saggio: se non guardi dove metti i piedi, una
merda di cane è il minimo, una mina antiuomo, il massimo.
Ma nel primo caso puoi recuperare, nel secondo ti recuperano
gli altri, ma non è un bello spettacolo.
Il cuoco, cantava ad alta voce mentre cucinava.
Linda apparecchiava i tavoli, veloce e leggera, certo
avrebbe potuto farlo con un gesto magico, ma le piaceva farlo con le sue mani,
si interrogò ancora una volta. Avrebbe voluto essere umana?
Non trovò una risposta, non voleva trovarla.
“Lu, disse ad alta voce, a che punto siamo?”
Il cuoco rispose dai meandri della cucina:” Quasi pronti
tesoro!”
Cadde un silenzio di piombo.
……………
“Scusa Linda scherzavo, ero incasinato, non volevo,
scusami davvero. Non accadrà mai più che mi permetta una tale confidenza, oddio
che deficiente sono, scusa.”
Linda era sulla porta della cucina e lo fissava assorta.
“Vieni qui, demone secondario, te lo ordino!” disse Linda
con voce di tuono.
Lu vide passare davanti a se gli ultimi cinque secoli
della sua vita.
“Me lo merito” pensò “ma la amo troppo, meglio chiuderla
subito e finire di soffrire”
Si avvicino a capo chino.
“Lu” esordì Linda con una voce che fece vibrare tutte le
padelle nella rastrelliera.
“Mi hai chiamata tesoro!”
“Scusa Linda, ti ho detto, ero soprappensiero non accadrà
mai più perdonami”
“Tesoro” disse Linda “è la più bella cosa che abbia mai
sentito, chiamami sempre tesoro e così io chiamerò te: Tesoro.
Lu non si capacitava, ma fece un passo avanti, Linda non
si capacitava ma fece un passo avanti. Erano vicinissimi, i loro visi si
accostarono, le loro labbra volevano incontrarsi.
“C’è nessuno? si può mangiare qualcosa? Disse una voce
maschile all’ingresso.
“Azzz, la missione”
pensarono all’unisono.
I due erano sulla porta perplessi.
Linda si materializzò “buonasela signoli.
Un tavolo per due?”
“Sì grazie”
L’uomo era ipnotizzato dalla bellezza di
Linda, un calcio nello stinco lo riportò alla realtà.
“Se vuoi fare il cretino con la cameriera, ti
mollo qui” sibilò lei.
“Ma no dai, tesoro, è che è di una
bellezza…extra terrena, non saprei come definirla”
Linda sorrise mentre li accompagnava al
tavolo, umani, che razza incomprensibile.
Eppure, penso Linda, con tutti i loro
limiti, la vita breve, le malattie, il cervello che funziona ad intermittenza,
riescono a produrre sentimenti enormi.
Ora che si erano seduti, sembravano
meno ansiosi.
“Desidelate oldinare” disse, in una
terribile imitazione di accento italo-cinese.
I due sembravano persi in un mondo
tutto loro, si guardavano negli occhi e si tenevano le mani.
Un urlo straziante provenne dalla
cucina.
“Maledetto sia l’olio bollente, e
maledetto il cretino che se lo versa addosso” tuonò una voce.
I due si riscossero.
“Sì vorremmo ordinare se non è
disturbo”
Disse l’uomo.
“Dite pure, ehm, pule” rispose la
cameriera.
“Diamo un’occhiata alla lista se non le
dispiace”
“Celto signoli, io tanto faccio corsa
in cucina per capire se qualcuno si è fatto male.
A fra poco”
E strizzò l’occhio all’uomo, poi svanì
senza un rumore.
Ora fermiamo un attimo il filmato e
vediamo almeno due dei protagonisti.
Lui: è alto, magro, bell’uomo con
trascorsi interessanti, fa lo scrittore.
Squattrinato, pochissimo pubblicato, ed
ancora meno letto.
Lei: bellissima donna, inconsapevole
dell’effetto che ha sull’altro sesso, o forse no.
Un lavoro certo una vita certa, un
progetto di futuro certo.
Certo che….era certo prima che
incontrasse lui, prima che scoprissero di, di…amarsi?
Prima di quella assurda serata.
Visti così in un fermo immagine, gli
occhi negli occhi, le mani nelle mani, le menti chissà dove, ricordavano un
quadro.
Se socchiudete gli occhi, vedrete che
piano piano lei si libra verso il cielo e lui la trattiene, ma non perché non
voli, ma per volare assieme trasportati dalla forza che muove il mondo e le
altre stelle.
Sì bravi, è la passeggiata di Chagall.
Ma la divagazione è durata anche
troppo, torniamo in cucina e vediamo che succede.
“Lu, che accidenti combini?” disse
Linda dalla porta.
“Scusa mi sono scottato con l’olio
bollente, sti cazzo di cinesi friggono tutto”
Linda lo guardò allibita.
“Lu, abbiamo una missione da compiere,
loro, quelli che potrebbero salvarci sono di là ed aspettano la cena, e sai
cosa dobbiamo fare, e tu…. Tu, ti bruci
con l’olio caldo?
Cazzo Lu, tu sei un demone, vivi in un
posto che sta sui diecimila gradi ed il
commento in genere è: freschetto stasera
no?
Che cazzo stai combinando?”
Lu aveva una scottatura notevole sul
braccio sinistro era rossa e pulsava.
“Tesoro, puoi fermare il tempo per un
po’, io non ho mai imparato, non ho il potere.” disse lui.
Linda era frastornata, sentiva le
farfalle nello stomaco: che fosse innamorata di un demone di seconda categoria,
brutto, e puzzolente?
Domanda cretina, se l’era già fatta
mille volte, e mille volte si era risposta sì.
“Certo che posso, ma il tempo è poco ed
abbiamo da fare”
Poi lo fermò.
Il tempo intendo.
Lu sapeva come funzionava, ma tutte le
volte rimaneva sbigottito.
Stavolta erano in una trattoria di campagna,
unici avventori ad un tavolo d’angolo.
“Se permetti vado al bagno disse Linda,
intanto tu ordina che poi parliamo”
“Mi farà impazzire” pensò Lu, poi si
osservò, un tizio medio, non bruttissimo vestito con una camicia a righine
bianche e azzurre, jeans, pantaloni neri scarpe nere.
Bisognava dire che Linda aveva gusto.
Bisognava dire che non sapeva da che
parte iniziare per spiegarglielo.
Ed il tempo era poco, molto poco.
Linda tornò al tavolo come un raggio di
sole e sorrise.
Era tornata bionda, come la prima volta
che la aveva vista, come la prima volta che avevano cercato di salvare il mondo
assieme, non era andata benissimo quella volta.
La osservo attentamente, indossava un
completo giacca pantaloni avana ed un sorriso che avrebbe resuscitato i morti.
Allora lui capì che sarebbe stata lunga e
difficile, ma che assieme avrebbero potuto farcela, le prese le mani e lei non
si ritrasse, lo guardava negli occhi, e diceva mille cose con quello sguardo.
Rimasero così alcuni eoni.
La cameriera intervenne” Poi noi ad una
certa ora si chiude”
Risero tutti e tre come matti, poi
ordinarono.
“Linda” esordì Lu “Ti devo parecchie
spiegazioni.”
“Sì ed in fretta, abbiamo una missione
di capitale importanza che ci aspetta”
Lu era costernato, poi lei aggiunse
“Dai tesoro prima ci togliamo sto dente, prima potremo dedicarci a noi”
Ora un demone di terza categoria come
Lu aveva tre modi per esprimere gioia profonda: Il primo era una scoreggia
turbo che avrebbe viaggiato per un migliaio di anni nella Galassia, il secondo
non si può dire perché estremamente pornografico, e chi legge potrebbe essere
turbato.
Lu scelse il terzo.
Si alzò lentamente dalla sedia e la
bacio, tenero e fremente sulla bocca.
L’asse terrestre si spostò di un grado
ed il ghiaccio iniziò a riformarsi ai poli.
Nella foresta amazzonica uno stregone
sorrise, la cameriera applaudiva, a Lasha nonostante il coprifuoco volarono
mille aquiloni.
“Sai tesoro, vedo gli aquiloni” disse
Lu.
“Anche io tesoro” disse Linda, “ma non
posso tenere il tempo ancora molto, sai che bestia è, spiegami”
“Allora” esordì Lu “cercherò di essere
sintetico”
Lei gli baciò leggera una mano.
“Tutto risale alla nostra prima
missione, ne abbiamo passate di tutti i colori, ed anche se non siamo riusciti
nell’intento primario, abbiamo fatto un buon lavoro, poi sei sparita, ma io ero
innamorato di te e ti ho seguita nella carriera, divoravo tutti i tuoi scritti
e cercavo di capire dove volevi andare a parare.
Alla tua ultima laurea, trecentesima?
Ero in ultima fila e ti guardavo.”
“Trecento quarantunesima ma non importa
tesoro” disse stringendogli le mani.
“Sì beh il titolo era mi pare: Perché
non essere umani? E se avessero ragione loro?
“Esatto”
“Da quel momento ho continuato a
studiare le tue tesi, e mi sono convinto che avevi ragione, che abbiamo sempre
fatto una battaglia stupida, contrasto invece che comprensione, ed allora ho
preso una decisione”
Gli occhi di Linda si allargarono
stupefatti.
“TU” disse in un ruggito “TU hai messo
in pratica le mie formule?”
“Si” rispose Lu, “tu non ne avevi il
coraggio, io per il mio amore si”
Linda stava piangendo.
“Quindi hai perso il tocco, immagino”
“Certo che si….tesoro?”
“Quindi la nostra missione è già
finita, abbiamo fallito un’altra volta…. Tesoro”
“Linda, il tocco non serve, quei due
sono innamorati cotti, non serve il tocco di Cupido, lo faranno comunque, la
forza dell’amore non si può fermare”
“Ma demone deficiente, non capisci che
così finisce anche la nostra storia!!!”
“Gradireste un caffè” disse la
cameriera.
Sì, amaro risposero all’unisono.
Linda aveva un’espressione
indecifrabile, guardava i fondi del caffè.
Lu era basito e prostrato.
“Lu” disse lei posso farti un breve
riassunto di cose che sai ma non hai interiorizzato?”
“Certo tesoro disse lui a capo chino”
“Allora, sai benissimo come gira il
mondo e chi comanda: comandano gli dei, loro sono in parlamento, loro sono in
consiglio. Loro decidono.
Ovviamente non esiste democrazia,
ognuno di loro ha anime da spendere e se ne procurano ogni giorno di nuove,
ricordi la nostra missione in Germania nel 44?
Ci eravamo quasi riusciti ma poi
qualcosa è andato storto,”
“Sì ricordo” rispose Lu
Quanto al consiglio, ci sono andato
poco, ma l’unico che mi piace è Manitù, parla poco e mai a vanvera”
“Sì gli altri sono dei grandi
casinisti, sempre in cerca di anime, pensa a Mohammed ora pensa di essere il
padrone del mondo perché ha Isis, comunque noi siamo sempre stati fuori, i
demoni, i paria, NOI che volevamo salvare il mondo.
E che vogliamo ancora farlo”
Linda stava piangendo.
“Capisci, noi saremmo il male!!!!”
“Abbiamo cattiva stampa tesoro” disse
lui.
Lei lo guardò malissimo, poi sorrise.
“Ma ora abbiamo la possibilità di
generare la pacificatrice la Donna che porrà fine allo sfruttamento dell’uomo
sull’uomo, la figlia di quella coppia s
alverà il mondo, e tu perdi il tocco di
Cupido ?”
“Però” riprese Lu” Vorrei spiegarti
come sono arrivato a questa decisione, e quali saranno le conseguenze almeno
per me.”
Lei annuì.
“Vedi studiando le tue tesi ho capito
che avevi ragione, ma tu sei una scienziata, la tua teoria è basata su statistiche
ed equazioni. Io sono, come dire più
terra terra, quando non gioco a farel’agente segreto, faccio lo storico.”
“E scrivi bellissime poesie disse lei”
Lu arrossì di botto.
“Come fai a saperlo” disse allibito.
“Dai Lu!, sono un’Arcidiavola, qualche
potere ce l’ho anche io, e poi mi interessavi anche tempo fa, così ho fatto
qualche ricerca.”
sorrise.
-Principessa
-Vederti tornare
-mi trafisse il cuore
-gioia e tristezza
-ed un senso di sgomento
-sollievo per rivederti viva
-disperazione mentre capivo
-che più non eri mia.
Citò Linda.
“sembra la poesia di un tredicenne
deficente” borbottò Lu.
“A me è piaciuta” disse Linda
ammiccando.
“Comunque torniamo a noi” disse Lu
dandosi un contegno.
“Te la faccio brevissima, ci siamo noi,
gli Dei e gli umani.
Gli Dei sono una banda di palloni
gonfiati, esistono perché gli umani li hanno creati, e non viceversa, ed esisteranno
sinché qualcuno crede in loro.
Gli umani esistono per brevissimi
periodi come singoli, ma come specie procedono.
Noi siamo in teoria eterni, se non ci
facciamo ammazzare.
Qual è la differenza fra le tre razze?”
Linda fece per aprire la bocca, ma Lu
la prevenne.
“Lo sò che lo sai, ma fallo dire a me
che sennò perdo il filo, la differenza è che noi e gli Dei non ci evolviamo,
gli umani si.”
“Noi siamo sempre uguali nel tempo,
certo, studiamo, impariamo, amiamo, ma questo non influisce sulla nostra
personalità, sulla nostra aura.
Noi abbiamo enormi poteri e
l’immortalità, ma non ci evolviamo tesoro”
“Vero, e questo ci porta a fare sempre
gli stessi errori”
Disse Linda.
“Tuo padre avrebbe potuto unirsi ad una
qualsiasi Dea ed entrare nel Consiglio, sarebbe diventato egli stesso un Dio,
ma scelse tua madre, un umana, anzi un ominide, perché?”
“Perché aveva capito, che quella era la
via giusta” disse Linda seria.
“Già, ed anche il tuo grasso e
puzzolente demone che hai di fronte lo ha capito, ci ha messo quasi 500 anni,
ma lo ha capito”
“Sai” disse in un sussurro, anche io ho
un genitore umano.”
“Io ho un figlio umano” disse Linda
coprendosi gli occhi con le mani.
“Lo so tesoro, e so anche quando è
stato concepito e con chi, quello che non capisco è perché, non gli hai
trasferito i poteri e lo hai abbandonato sulla terra.”
“Perché avevo un progetto Lu, ma ora mi
chiedo se sia ancora realizzabile”
La cameriera apparve col conto, segno
che il tempo voleva scorrere avanti.
“Grazie di tutto “dissero entrambi.
Istantaneamente furono al ristorante
cinese.
“Dove caspita eri figlia degenere sono
ore che cerco di contattarti”
Rimbombò la voce del Capo nelle
orecchie di Linda.
“Sono qui Pà e non è ancora mezzanotte,
e sono maggiorenne da quasi tremila anni”
“Linda. Per tutti gli schifosi dei devo
parlarti!”
“Mi stai parlando, o meglio mi stai
urlando, e sai che non lo sopporto.”
“Va bene tesoruccio del tuo papà, ti
dispiacerebbe farmi un rapporto di cosa sta succedendo, o chiedo troppo?
sai qui si tratta di una cazzata come
salvare il mondo, quindi se prima vuoi farti una doccia fai pure.”
Linda
conosceva quel tono, l’ultima volta che lo aveva usato, c’era stata Hiroshima
e Nagasaki, poi si era pentito, ma mai fare
incazzare troppo il babbo, in fondo era Lucifero, non Fiorello. “Ok Capo faccio una ricognizione e poi
rapporto”
“Bene tesoro, ma dimmi, non ti sarai
mica innamorata del testone?”
“Lo sai benissimo pà” disse Linda,”
come tu ti sei innamorato di mia madre: un africana piccola e tozza, Lucy mia
madre, eppure, avevi una scelta ampia no?
Le urì sbavavano per te, Calì, Venere,
shacti che è un pezzo di gnocca da urlo, tu hai scelto la mamma, insomma si, mi
sono innamorata di Lu”
Ora che lo aveva detto si sentiva più
libera, e se lo aveva detto era vero, e se era vero……..
“Sì piccola ma a quei tempi non c’era
tutto sto casino, a proposito la mamma ti saluta e ti fa i suoi auguri, ovviamente
lei sapeva che sarebbe andata così, sta preparando un intruglio che dice ti
servirà”
“Tesoro, non correre rischi inutili, ma
porta a termine la missione, un bacio da papà”
Linda era basita suo padre non era mai
stato così, così, come definirlo?
Così
padre.
“Grazie Papi” pensò.
“Tesoro” disse Lu indicando gli unici
clienti “forse dovremmo riportare nel tempo anche loro”
“Si” rispose Linda, e lo baciò sulla
bocca.
Ora un blocco temporale, soprattutto se
eseguito nelle vicinanze di esseri umani, può avere strane conseguenze, in
genere allucinazioni, c’era chi giurava di aver visto la Madonna fare surf
estremo, chi si convinceva di essere la reincarnazione di un grande del
passato, i più gettonati erano Giulio Cesare ed Elvis Presley, al vecchio Albert
andò meglio, era vicinissimo a Lu e Linda quando loro fecero un ultimo
tentativo di fermare il tempo ed evitare l’Olocausto, e fu in quel momento che
riuscì a chiarirsi la teoria della relatività, ma questa è un’altra storia.
Ai nostri teneri amanti successe
un’altra cosa, siccome si tenevano le mani sognarono la stessa cosa: sognarono
una vita. Devo dire una vita banale, già che sogni sogna in grande no?
Invece era una vita appassionata ma
serena, fatta di piccole attenzioni, e di grandi trasporti, di piccoli litigi e
grandi rappacificazioni.
Linda pensò: “Ecco cosa vorrei per noi,
serenità”
Poi, guardò Lu che aveva uno sguardo
ebete, e, non ne era sicura, gli occhi lucidi, telepatia?
Quindi schioccò le dita.
Erano di nuovo in pista.
“Piccolo disguido in cucina, cuoco
ustionato suo blaccio, ma ora tutto ok, posso consigliare piatto specialissimo?
“
La guardarono incantati.
Poi lui disse: ma non era bruna poco
fa?
“Azz, ma sono proprio deficiente” pensò
Linda” sono ancora bionda”
“Sì ma a me piace molto giocale con
pallucche, prossima volta vengo con capelli veldi,” e fece la risata più
stupida che riuscì a trovare nel suo repertorio.
“Vada per il piatto specialissimo”
disse lui. “Sei d’accordo tesoro?
“Certo, ma così a scatola chiusa… non
potrebbe descrivercelo, che so gli ingredienti…”
“ Celto signola, piatto di tella mare
cielo e fuoco: Funghi e maiale di tella, alga e calamalo di male, anatla di
cielo, e peperoncino di Inferno”
“Inferno ?” disse lei.
“Infelno, solli”
“santi Numi Linda” pensò fra se e se,”
ma dove hai la testa?”
Lo sapeva benissimo, ma non voleva
ammetterlo.
Ripropose la risatina scema.
Poi si chinò verso l’orecchio di lei ed
in un sussurro disse “è molto afrodisiaco, ma che resti fra di noi”
La donna annuì con un sorriso complice.
“Quindi bene per, piatto
specialissimo?”
“Certo dissero all’unisono” e si
sorrisero.
“Molto benissimo, ancora una cosa,
signoli, questo è un piccolo listolante e ci piace pensale che i clienti sono
anche amici.
Mio nome è Linda, cuoco è Lù, vostri nomi?
Il gelo calò nella sala.
“Beh disse lui…”
“Ma potete anche inventale eh, certo
che si”
“Sara disse lei, piacere Linda”
“Daniel” disse lui” molto piacere, sono
quelli veri Linda.
“Io molto contentissima, di conoscere
nuovi amici” disse ridendo.
“Ma sei ubriaca” si disse, “sembri
l’oca giuliva, basta con l’imitazione della cameriera deficiente” ma non riuscì
a trattenersi “ poi noi abbiamo piccola solplesa per voi”
Polto intanto da bele ?
“Me…”iniziò Daniel
“Mezzo vino bianco e mezza minerale
gasata e mezza natulale” concluse Linda.
“Già” abbozzò Daniel.
E con un inchino Linda tornò in cucina.
“Simpatica la cameriera, ma strana”
disse Daniel.
“Già, ed interessante scollatura, cosa
dice la radiografia che hai fatto delle sue bocce?”
“Dai tesoro”
“Dai un cazzo, non hai scollato lo
sguardo un secondo”
“Lo sai che amo solo te”
“Certo, però sprofondi nelle tette
della prima cretina che passa”
“Cletina è tolnata” trillò Linda,
portando i beveraggi.
Ora aveva i capelli verdi, ed una
scollatura vertiginosa, Daniel si concentrò sul vino, caspita anche la gonna
era molto piùcorta.
“Sono una stronza” pensò Linda “ma
cretina lo dici a tua sorella” e se ne andò sculettando.
“Senti se vuoi fare il deficiente con
la cameriera, io me ne torno a casa, che forse è meglio”
“Ma tesoro, non ho proferito verbo”
“Sì ma uno sguardo vale più di mille
parole!”
“Vero, ed io ti guardo sempre così, te
ne sei mai accorta?”
“TADAN , ecco il piatto dei piatti, il
piatto che fa resuscitare i morti e gioire i vivi
Il piatto che sazia l’affamato e unisce
gli amanti, il piatto che con tanto amore abbiamo confezionato per Daniel e
Sara.” Disse Lu
Erano entrambi sull’attenti davanti al
loro tavolo, poi Lu li servì entrambi.
Linda batté le mani ed una serie di
fuochi d’artificio comparve sul soffitto.
“Ma questi sono matti” pensarono
all’unisono.
“Buon appetito, e figlie femmine” disse
Lu, poi baciò Linda e si ritirarono abbracciati in cucina.
I due si guardarono perplessi, ma il
profumo che saliva dal piatto era molto invitante, e mano nella mano divorarono
tutto.
“Allora querida, questo rapporto arriva
o no?”
Ora rispondere al Capo quando si è
stravaccati su di un tavolo di cucina e si armeggia con la cerniera dei calzoni
del cuoco, mentre il suddetto cuoco assaggia le parti più intime non è proprio
il massimo ma quando il capo è anche tuo padre, beh, ti piacerebbe essere
orfano.
Linda si rassetta alla meglio e
risponde “Tutto a posto pà, tempo una mezzora ed avremo l’erede al trono.”
“Stai in campana figliuola, la mamma ha
cattive vibrazioni, ed i miei informatori mi dicono che siete stati scoperti,
non potreste velocizzare?”
“Pà, il tipo Daniel è un’intellettuale,
di merda, tutto di testa, se lo forziamo c’è il rischio che faccia cilecca”
“Ma hai Cupido con te no, digli che si
dia da fare”
“Si sta dando da fare” e le scappò un
risolino.
“Non c’è da ridere piccola, temo per la
tua vita”
“Dai pà me la sono sempre cavata no?”
“Certo, ma sti deficienti hanno intuito
qualcosa e si sono alleati, ed assieme sono molto pericolosi”
“Si sono messi d’accordo tutti?”
“Sì querida tranne Manitù e Zeus che si
sono ritirati sull’Aventino, ma sai che non contano un cazzo”
“Ok papi vedo di forzare i tempi, a
dopo”
“Bene piccola, sono vecchio, ma non
ancora rincoglionito, so cosa stavi facendo, ma perché incaponirti con la cerniera,
c’è un modo più semplice, usa la magia no?”
“Storia lunga pà, te la racconto quando
siamo usciti da sto casino”
“Escine viva tesoro”
La comunicazione si interruppe.
“Brutte notizie?” disse Lu.
“Sì pare che ci abbiano scoperti,
dobbiamo sbrigarci”
“Sì, ma eravamo sulla buona strada”
“Ottima tesoro, sento ancora la tua
lingua dentro di me, ma abbiamo una missione.”
Quando tornarono in sala i due stavano
baciandosi acrobaticamente, nonostante il tavolo fosse fra loro.
“Ehm” fece Linda, senza risultato.
“Scusate” disse Lu ad alta voce, nulla.
“A mali estremi, estremi rimedi” pensò
Lu e sparò la scoreggia turbo.
“I danni alla città furono
circoscritti, qualche cornicione caduto, un paio di voli dirottati su Milano,
un leghista che parlava su di un palco, volò via dopo aver detto: “e se non
dico la verità che il diavolo mi porti”, atterrò poco lontano, ancora vivo, ma
si sa il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.
Comunque i due si riscossero.
“Cos’era, un tuono?” disse Sara.
“Ci porta il conto per favore” disse
Daniel.
“Celto signoli” disse Linda con un
sorriso birichino “ma vi vedo stanchi, se volete, aggiungendo solo un eulo al
conto, potete riposarvi nelle stanze di sopla”, ed indicò una scaletta,
affianco c’era un cartello: camere 1/7 un euro, a testa.
L’espressione dei due, rimase a lungo
nella mente di Linda.
Valeva la pena, valeva la pena di farsi un
culo cosi in missioni impossibili se poi a ripagarla c’era uno sguardo così.
Porse loro la chiave numero 7 e si
allontanò.
In fondo anche lei aveva lasciato
qualcosa in sospeso, qualcosa di molto piacevole.
Tornò in cucina.
“Ciao bel demone, gli ho dato la 7, le
altre sei sono per noi. Sali e scegli. Io chiudo e vengo su”
“Agli ordini capo! lascio la porta
aperta a fra poco” e iniziò a salire le scale.
“Che giornatina pensò Linda, meno male
che è finita.”
Qualcuno bussò alla porta.
“Buonasera, si può mangiare qualcosa”
“No signole, è molto chiusissimo disse
Linda”, affrettandosi verso la porta per chiuderla.
Arrivò troppo tardi, una torma di
avventori stava entrando nel locale, riconobbe ebrei integralisti, musulmani
ancora più integralisti, indù, testimoni di Geova, mormoni e praticamente i
rappresentanti di ogni religione riconosciuta ed altri che non riconobbe.
“signoli, signoli, il listolante è
chiuso,” si sgolava Linda, ma ormai tutti i tavoli erano occupati ed altra
gente continuava ad entrare.
Per ultimo entrò un Templare, in
armatura.
“Caspita, sono ancora fra noi” pensò
Linda e si portò davanti alla scala per difendere col suo corpo l’accesso.
“Donna fatti in là, abbiamo una
missione da compiere, Deus vult.” Disse il templare.
Ora fare incazzare un demone non è mai
una cosa furba, ma farlo incazzare pronunciando le ultime parole che il suo
grande amore aveva sentito prima di morire, prima che lei potesse salvarlo, beh
quello era veramente troppo.
Il crociato avanzò verso di lei con la
spada sguainata.
“Sparisci donna, o ti trapasserò con la
spada e farò comunque ciò che devo.”
Linda a voce bassissima disse “sai
pregare crociato?”
“Certo bagascia” rispose lui ed avanzò.
“Bene allora fallo, ma in fretta,
perché il tuo tempo è finito.”
Arretrò di un passo, estroflesse le ali
e sfoderò gli artigli.
Poi si avventò, urlando una serie di
maledizioni ed incantesimi.
Durò forse tre minuti.
Poi fu silenzio.
Linda ansimava, ritirò le ali e gli
artigli.
“Padre, credo siamo nella merda, ho
appena fatto una strage, dobbiamo trovare una via di fuga, subito”
“Piccina ma come mai, non ti sei data
all’uncinetto?”
“Con gli artigli, non si impugna bene”
“Ok vedo di trovare una via d’uscita,
tu recupera i tuoi amici”
“Padre ho fatto un massacro”
“Figlia, lo meritavano, lo sai anche
tu, puoi volare, sei ferita?”
“Neanche un graffio”
“Bene, vedo qual è la via più breve per
portarti qui”
Lo sapeva, lo sapeva benissimo, avrebbero
sempre perso, non riuscivano ad imparare dall’esperienza, ogni tanto si vinceva qualche scaramuccia, ma alla fine
avrebbero sempre vinto loro.
“Comunque pensò ho amici, ed il
mio…amore?” sorrise al pensiero “da mettere in salvo”.
Corse come una furia a chiudere la
saracinesca, poi salì le scale di corsa, andando a sbattere contro Lu, pulito,
profumato, indossava un’improbabile Kimono rosso, aperto sul petto.
Non poté trattenere un sorriso.
“Lu, ma come cazzo ti sei conciato? Mi
sembri un bullo del Testaccio “
Lu aprì la bocca per rispondere, ma lei
lo tempestò di parole.
“Sotto è scoppiato un casino, ho fatto
un massacro, dobbiamo scappare in fretta, hai pensato ad una via di fuga?”
Lui la guardava perplesso, poi disse
“non hai dimenticato qualcosa?”
Linda ripensò mentalmente alle sue
azioni, non le sembrava di aver dimenticato nulla, poi capì.
“Hai pensato ad una via di fuga tesoro?” disse.
“Certo che sì tesoro, prendiamo i due
umani e saliamo sul tetto”
Corsero verso la stanza numero 7. E lì
si fermarono di botto, dalla stanza uscivano mugolii inequivocabili.
“Chi entra” dissero all’unisono
“Entrate entrambi razza di deficienti”
rimbombò una voce nella loro testa “siamo in una situazione di crisi, le unità
di pacificazione del Consiglio sono già partite, se vi beccano lì siete finiti,
e siamo finiti tutti”
“Ok Pa” rispose Linda “ma come mai sei
sempre incazzato?”, poi rise e rise anche Lu, e rise anche Lucifero.”
“Tesoro. Lo sapevo che dovevo strozzarti in
culla, ma ti amo troppo.
“Ora andate il tempo è poco, ho aperto
una finestra sul Vesuvio, ma la strada è lunga”
Lu e Linda si guardarono, poi si
baciarono, il tempo si fermò per un attimo, e lì sarebbe potuta finire tutta la
storia.
Fortunatamente un tossico, svenne su di
un motorino innescando l’allarme, che mise in allerta i due demoni.
“Azzz ma siamo deficienti” si dissero,
e fecero irruzione nella stanza.
I due, vestiti di tutto punto si
tenevano le mani e parlavano fitto fitto.
“Umani” pensò Lu, io a quest’ora……..
Poi pensò al suo abbigliamento, ed al fatto che a quest’ora, non aveva ancora,
neppure immaginato di toccare la sua amata.
“Signori siamo in emergenza, di corsa
in terrazzo” Lu farà strada”
I due la guardarono basiti. “Ma scusi”
disse Daniel.
“Vi spiegherò in volo” rispose Linda
“ora andate, di corsa”
“In volo?” Dissero all’unisono.
“Poi vi spiego, è un’emergenza!”
“Lu, devo ancora fare una cosa e vi
raggiungo, portali in terrazzo, vai”
Lu andò.
Linda apri la finestra, estroflesse le
ali e planò a terra.
Il tossico, era sdraiato ai piedi del
motorino che probabilmente, le aveva salvato la vita.
Si chinò su di lui
” Come ti chiami” chiese dolcemente.
“Davide” rispose aprendo un occhio.
“E tu?”
“Linda” rispose, poi entrò in lui e
vide tutta la sua storia, le veniva da piangere, ma si trattenne.
“Bene Davide tu non sai come, ma
stasera hai salvato la mia vita e quella di alcuni miei amici, quindi, ora
cercherò di salvare la tua.”
Davide aprì l’altro occhio, la guardava
perplesso.
“Perché hai i capelli verdi?” disse.
Azz pensò Linda, si stupisce dei
capelli, le ali invece sono normali!
“Davide, tu stai sognando, ed in questo
sogno, una diavolessa, ti libera, dalla dipendenza della droga, e ti regala un
gratta e vinci, non è tantissimo, ma con 20.000 euro si può iniziare a fare
qualcosa, no?” e gli porse il biglietto.
Davide si riscosse, e la guardò
stupefatto.
Poi si alzò, la riguardò, si mise in
ginocchio e le baciò le mani.
“Cazzo Principessa, noi siamo in
terrazzo, e c’è un vento che porta via, arrivi?” disse Lu.
“Certo tesoro, sto arrivando” ed ascese
sotto gli occhi esterrefatti di Davide.
“Quando avrai bisogno di me, io ci
sarò” urlò il ragazzo.
“Speriamo di no” pensò Linda.” Troppo
sangue è già stato versato, e troppo ancora se ne verserà”
Ed atterrò sul terrazzo dell’albergo.
“Siamo nella cacca tesoro” esordì Lu,
“stanno arrivando, non ce la faremo mai a raggiungere il Vesuvio, non avessimo
gli umani appresso forse sì, ma con loro dobbiamo volare piano, sennò ci
muoiono fra le braccia”
“Già” Rispose Linda. “e non è solo
quello il problema” pensò Linda. L’aura di Lu era sempre più rarefatta,
somigliava sempre più ad un’aura umana, Lu stava perdendo, no forse rinunciando
ai suoi poteri.
“per ora togliamoci di qui Lu, alla
Casa del Boia direi, è terreno nostro, ben difeso, poi, poi, Trioria , ho delle
amiche lì”
“Bene tesoro andiamo” disse Lu,
prendendo sottobraccio Sara.
“Lu” disse Linda con una voce che
ricordava un serpente a sonagli pronto ad attaccare.
“Io prendo Sara, tu Daniel, ricevuto?”
“Forte e chiaro capo, è che era la più
vicina quindi siccome siamo di corsa…. Capisci che…”
“Piantala tesoro vuoi?”
“Certo che si tesoro” rispose Lu e
pensò “caspita è anche gelosa, allora mi ama davvero ! Yeppa yeppa” e partì
come un fulmine trascinando il povero Daniel verso la Casa del Boia.
Linda sorrise, “che scemo è” pensò “ma
lo amo” poi porse il braccio a Sara, allargò le ali e volò verso la Casa del
Boia.
Cercava di creare una cortina di
invisibilità su di loro, ma volavano troppo bassi.
Sperò che nessuno alzasse lo sguardo su
di loro, poi li vide, seduti al tavolo della pizzeria.
E vide la bomba nel bidone della
spazzatura.
Incontrò per un attimo gli occhi
dell’uomo, forse aveva capito.
Lanciò un paio di incantesimi sulla
bomba, non poteva fare altro.
Era sempre così, arrivava sempre in
ritardo.
Atterrarono sul tetto, la notte era
dolcissima, i gabbiani svolazzavano urlando la gioia di vivere, una nave diede
un colpo di sirena, una brezza leggera di scirocco portava l’odore del mare.
Una notte perfetta per amare, ma
purtroppo non c’era tempo, non c’era mai tempo per nulla, Kronos correva come
un forsennato verso chissà che baratro e loro con lui.
“Senta” disse Sara, “non so quale sia
il trucco, ma mi sono stufata, è tardissimo e devo tornare a casa, e mi scappa
anche la pipì” e proruppe in un pianto inarrestabile.
“Devo dire che non capisco cosa sia
successo, ma Sara ha ragione, ci avete sequestrato e questo è un crimine
signora” rincarò Daniel abbracciando la sua amata.
Linda aprì una botola che dal tetto
portava all’interno.
“Ora scendiamo, sotto c’è un bagno,
così risolviamo il problema più urgente, poi cercherò di spiegarvi la
situazione”
A malincuore scesero.
Linda sentì l’esplosione attutita dalle
mura, “Fa che sia ancora vivo” pensò.
Da via del
campo ai portici di sottoripa, erano cinque minuti di passeggiata, l’aria si
era un po’ rinfrescata, una leggera pioggerellina scendeva dal cielo grigio.
Stella
estrasse l’ombrello dalla borsa. “Tienilo tu” disse, che sei più alto, poi si
appese al suo braccio, il viso appoggiato alla sua spalla.
“Donne”
pensò Archi, “come ha pensato di mettere un ombrello in borsa stamattina che
c’era un sole da Sahara?”
Il paesaggio
era desolato, anche nel centro del Centro storico un negozio su due era chiuso,
la crisi mordeva forte, e non si vedeva via d’uscita.
Beh però
passarono davanti ad un ristorante cinese, non lo aveva mai visto prima, e
sembrava anche molto affollato, c’era la fila fuori dalla porta.
“Quasi
quasi” pensò “Potremmo mangiare cinese”
“Archi”
disse stella “Cosa provi per me?”
Una sberla
in pieno viso gli avrebbe fatto molto meno male.
Si rese
conto di avere ancora l’ombrello aperto nonostante fossero sotto i portici, stella
era aggrappata al suo braccio, la guancia sulla sua spalla.
“Stella,
sono sei mesi che cerco di dirtelo” disse.
“Io, ti stimo,
mi piaci, ma, non so se ti amo” disse lei.
Erano
davanti alla pizzeria, sarebbe bastata una parola per cambiare il corso degli
eventi, sarebbe bastato che rinunciasse al suo stupido orgoglio e le dicesse
quanto la amava, quanto aveva sognato di poter stare assieme a lei.
Sarebbe bastato?
Forse.
Stava per dirglielo,
ma venne travolto da un ometto in tenuta da cuoco che gli corse incontro e lo
abbracciò con trasporto.
“Archi,
guagliò, quanto tempo, ma venite avanti che vi libero un tavolo”
“Ciao Totò
come butta?”
“Bene cumpà,
è una merda, ma io me la cavo, io me la cavo sempre, preferisci il dehor all’aperto
no, così puoi fumare”
Totò, tipo strano,
mille mestieri, e mille idee, ora faceva il pizzaiolo, domani chissà, il
broker, o lo spacciatore, comunque era un vero amico, da quando lo aveva salvato
da una brutta storia di camorra, stravedeva per Archi.
“signò”
disse rivolto a stella “Tenetevelo caro chist ommo pare strunz, ma tiene un
cuore grande accussi.”
E dopo aver
dato una pacca sulla spalla ad Archi, tornò in cucina.
Archi aprì
la bocca ma stella fu più rapida.
“Quanto lo
hai pagato per la sceneggiata, così lo metto a bilancio.”
“Non mi ami,
tutto il resto non conta, come sai benissimo non ho pagato nulla per la sceneggiata,
e già che ci siamo direi che potresti smettere di versarmi gli ottocento euro sul
conto.
Mi sto
riprendendo, ti ringrazio ma non ne ho più bisogno”
“Allora, vi
lascio la lista, ma cumpà, ti fidi di me?” disse Totò che era ricomparso, per spostare
la seggiola di stella.
“Certo cumpà”
rispose Archi.
“Allora ci
penso io, detto fra noi” disse ad altissima voce” La signora che ti accompagna
è nu babbà” e sparì in cucina.
“Beh” pensò
Archi “se per ogni amico deficiente che ho, avessi un euro sarei miliardario”.
Come da
regola l’aria fu straziata da una sirena d’allarme.
“Lo sai che sei
uno stronzo. Vero? Non rispondere! Lo sai che non mi sono dimenticata” e lanciò
sul tavolo un pacchetto che rotolò e stava per cadere a terra, Archi lo prese
al volo e lo rimise sul tavolo, chiedendosi cosa potesse contenere.
Si stupiva
sempre della sua prontezza di riflessi, il suo inconscio lavorava molto meglio
del conscio.
“Stella” disse
lui, “Che caspita devo dire? Mi hai fatto un regalo di compleanno, io non ti
regalo mai nulla, ma”
Lei guardava
in alto rapita.
“Guarda la
Archi” disse indicando un punto nel cielo. “Li vedi anche tu?”
Cazzo se li
vedeva, le figure tremolavano ma se avesse dovuto testimoniare avrebbe detto di
aver visto due figure alate e due umani che volavano rapidi nel cielo della sera.
Ed avrebbe
giurato di non aver bevuto nulla.
Anche se per
un secondo, gli era sembrato di scorgere visi noti.
“A chi somigliano?”
chiese a stella.
“Capo, non
voglio saperlo, non si vedono più, abbiamo avuto un’allucinazione, è un’altra storia,
vado un attimo in bagno” e si alzò
“Siccome non
siamo abbastanza incasinati” Pensò Archi mentre le figure si allontanavano
verso la casa del Boia.
Stella era
tornata al tavolo, con un’espressione incomprensibile.
“Partiamo
dalla fine, per arrivare all’inizio” disse Totò mettendo in tavola un Babà al
Rum con sopra una candelina, sul piatto campeggiava una scritta: 60, e non sentirli!
Sentì salire
le lacrime agli occhi.
Cazzo, si
erano ricordati del suo compleanno.
Totò batteva
le mani e cantava tanti auguri, stella si alzò e lo baciò sulla bocca.
Lui era
completamente intronato.
In quel
momento ci fu l’esplosione.
Quel suo assurdo
riflesso gli consentì di lanciarsi su stella per difenderla dall’esplosione.
Poi svenne,
per la terza volta nella stessa serata.
Quando si
riprese, la mattina dopo, si rese subito conto di essere in ospedale prima
ancora di aprire gli occhi. L’odore. I rumori ovattati, chissà.
Il primo
viso che comparve alla sua coscienza ancora obnubilata era quello largo e
butterato del commissario Plischino.
“Ciao Jena,
ma non eri morto a Stalingrado” disse con un filo di voce.
“E’ vecchia
e non fa ridere” rispose il commissario.
“La so, è la
suocera” disse Archi in un sospiro.
“Che cazzo dici?
Ti sei fumato il cervello?”
“La suocera:
è vecchia, e non fa ridere, stella come sta?”
“Meglio di
te direi, non che ci voglia molto, a proposito: auguri”
“Grazie, ora
vorrei uscire di qui, ho del lavoro da fare, voi avete una pista su cui lavorare?
azz doveva essere una bella bomba, era nel bidone dell’immondizia vero?”
“Rossini, tu
non vai da nessuna parte, rimani in ospedale e fai il paziente, capito? Il
paziente molto paziente.”
Archi lo
guardò,” Antonio, il fatto che io ti abbia salvato la vita una volta, non
implica che tu sia diventato la mia mamma, quindi aiutami a trovare i calzoni
ed usciamo di qui”
Poi scese
dal letto e stramazzò a terra.
Plischino lo
sollevò e lo rimise a letto, nel frattempo era arrivata un’infermiera.
“Ma cosa le
ha fatto?” disse con un tono sopra le righe.
“Non ho
fatto nulla, fa sempre tutto lui” ringhiò Plischino.
Lei le rivolse
uno sguardo che avrebbe incenerito il Polo Nord.
“Comunque
ora esca, il paziente è provato e deve riposare”
“E’ un testimone
fondamentale, di un atto doloso, un attentato, devo interrogarlo”
“Lei è un
commissario di Ps vero”
“Certo”
“Quindi ha
obblighi e doveri”
“Certo” ripeté
il commissario, non capiva dove la donna voleva andare a parare.
“Ed io chi
le sembro?”
“Un
infermiera direi”
Poi vide la
targhetta appuntata sul camice, “Anzi una Caposala”
“Bravissimo,
ed ancora un’ultima domanda, vuole?”
“Certo”
Plischino
non capiva nulla si era fatto trascinare in un dialogo assurdo e non sapeva
come uscirne.
“La domanda
è” disse la donna “lo sa dove siamo?
Oppure è
così deficiente da non capirlo?
Bene se non
lo ha capito glielo dico io. .
Siamo in un
ospedale, più precisamente in un reparto, di terapia intensiva ed emergenziale,
quest’uomo sta male ed è in terapia, sospettiamo un trauma cranico, riesce a
realizzare cosa vuol dire?
E lei deve
interrogarlo?
Ma che cazzo
di bestia è?
Fuori di
qui, immediatamente!”
Plischino
arrossì, e si avviò verso la porta.
Archi fece
un breve applauso poi disse” Bravissima, gli ci voleva una strigliata, ma lo lasci
pure rimanere, magari riusciamo a venire a capo del casino”
Lei si voltò
verso Archi.
Lo sguardo
di ghiaccio.
“Rossini”
disse “Quando avrò bisogno del suo parere, non mancherò di chiederglielo”
Poi rivolta
al commissario “Fuori! Per favore”.
“Può
chiamarmi Achi, se vuole”
“Può
chiamarmi Barbara, se vuole”
Disse lei quando
il commissario fu uscito.
Si avvicinò
al letto, e lo guardò negli occhi.
“Ma abbia
ben presente Archi, che se mi chiama, deve avere un ottimo motivo,
comprendido?”
“Tipo?” rispose
lui.
“Tipo che sta
tirando le cuoia, o qualcosa di analogo.”
Dopodiché uscì
dalla stanza.
“Che tipino
pensò Archi”
Si mise a sedere,
sul letto, poi quando la stanza ebbe finito di ruotare come una trottola,
controllò il comodino.
Meno male,
le sigarette c’erano ancora, ne accese una ed andò alla finestra, in tutta la storia
c’era qualcosa che non tornava.
Ma non
capiva cosa.
Guardò la
città, era bellissima, vista da lì.
Genova la superba, pensò.
Bella come una principessa, stupida come una
zoccola, odi et amo pensò in un rigurgito di cultura liceale.
“Il
telefonino trillò”
Corse a
rispondere: un sms.
“Ciao capo,
come stai? io sono fuori dalla porta, c’è una deficiente che non mi dà il permesso
di entrare.
Le parli tu,
o le do una testata in fronte?”
“Pigliala
bassa tesoro” scrisse “Ti ho mai detto che ti amo?”
“Dici
talmente tante cazzate, che può darsi, e può darsi ti abbia risposto: anche io”
Si accese
un’altra sigaretta, non sapeva se ridere o piangere.
Poi la porta
si aprì di botto e stella irruppe nella stanza seguita da una Barbara
incazzatissima.
Stella si
buttò fra le sue braccia, lui la baciò.
“Rossini” disse
Barbara “Che cazzo sta facendo?”
“Mi sembra
evidente, bacio la donna che amo, no?”
“Molto simpatico,
un vero piacione, fossi deficiente mi innamorerei di lei.
Lei sta fumando!”
“Sì, ma è la
cosa meno piacevole, in realtà, sto baciando, amando, pensando…”
“Dio mio”
disse Barbara, e si accascio sulla sedia degli ospiti.
“Guardi che
tanto è irredimibile” disse stella con un sorriso.
“Sembrerà
strano, ma lo avevo capito. Dieci minuti, poi sparisce. D’accordo?”
“Certo Caposala”
“Bene, io
vado, ma torno fra dieci minuti, se il paziente non è solo in camera ed a letto
pianto un casino spaziale.”
Ed uscì.
“Ma perché
le donne si incazzano sempre con me” disse Archi.
“Sarà perché
non capisci un cazzo?” disse stella.
“Comunque cosa
vuoi fare?”
“Fuggire di
qui tesoro” disse lui “ho del lavoro da fare”
“Immaginavo,
dai vestiti, che ce ne andiamo”.
Ma il destino
aveva deciso diversamente, entrò in stanza una barella con annesso barelliere seguito
da un medico.
Archi aveva
i calzoni a mezza coscia.
“Rossini
uno, che cavolo stai facendo?” disse il medico.
“Non ci posso
crederci, Rossini due?” e tentò di correre incontro al medico, inciampando nei
pantaloni, stella lo sorresse.
I due
Rossini si erano finalmente rincontrati, avevano fatto i cinque anni di liceo
praticamente in simbiosi, poi si erano persi di vista Arcibaldo Rossini aveva
scelto il Dams a bologna, Fulvio Rossini medicina a Genova.
“Ma quanti
anni sono passati?” Disse Fulvio, sedendosi sul letto.
“Una
quarantina” disse Archi, sedendosi accanto a lui.
Le due donne
li guardavano perplesse.
Il
barelliere si rollava una sigaretta.
“Senti
Archi” disse il medico, ora sono io Rossini uno, e comando io, ora vai a fare
una tac, vediamo i risultati e poi casomai vedo di dimetterti in un paio di
giorni. Comprendido?”
Archi guardò
Barbara che si mordeva le labbra.
“Comprendido
compadre” rispose.
“Ok, allora
levati i calzoni e salta sulla barella che andiamo.”
“Archi di
malincuore tolse le braghe, e si sdraiò in barella, poi fece segno a Fulvio di
avvicinarsi.
“Ma hai una storia
con la caposala?” disse a voce bassissima.
“Come cazzo
hai fatto a capirlo?” rispose Fulvio.
“Faccio
l’investigatore, comunque complimenti, ottima scelta, caratterino d’acciaio, ma
ottima carrozzeria”
“Amico mio,
io qui sono primario, prova solo a fare un avance con Barbara e ti porto in
sala operatoria e te lo taglio, senza anestesia” poi rise di gusto vedendo la
faccia terrorizzata di Arci.
“Dai scemo,
una piccola vendetta, al liceo tu eri sempre il primo, ed io il secondo, fammi
godere un po’”
Poi con un
cennò chiamò il barelliere.
Andiamo a
fare questa Tac.
La Tac, come
dio volle, non evidenziò problemi particolari.
“Quindi sono
radioattivo?” disse Archi all’amico.
“Solo sino a
domani “
“Quindi mi
dimetti” disse Archi, non era una domanda, era un’affermazione.
La stanza della casa del Boia in cui
scesero era piccola ed ingombra di armi ed armature medioevali.
Lo spiritello maligno che albergava in
Linda le suggerì di accendere le torce per rendere ancora più lugubre
l’atmosfera, ma Lu la prevenne schiacciando l’interruttore, la luce era fioca,
ma sufficiente.
“Questa è la Casa del Boia” spiegò Lu,
ne ha viste di tutti i colori nel tempo, ma ora è gestita dai Balestrieri del
Mandraccio, una congrega che ama le rievocazioni storiche, sono molto
simpatici, credo che sappiano che alle volte lo usiamo come pied a terre, ma
non ci siamo mai disturbati a vicenda.”
Poi visto che Sara aveva alzato la mano disse
“Ah certo, il bagno è là in fondo”.
Sara si avviò fra lo stizzito ed il
sollevato.
Daniel alzò la mano e disse” sono doppi
servizi? perché anche io, ehm dovrei…”
“E come no?” Rispose Lu, “c’è anche la
sauna e l’idromassaggio”
“Ok aspetto” disse Daniel arrossendo.
Linda era impegnata in una
conversazione serrata con Lucifero.
“Per come la vedo io, quelli che vi
hanno attaccati erano un mucchio di cani sciolti, senza nulla togliere alle tue
capacità di combattente, se fossero state le unità di pacificazione del
Consiglio, non ne saresti uscita viva, comunque ora bisogna che elaboriamo una
strategia”
“Certo Capo, per ora siamo
relativamente al sicuro, ma non per molto.
Potresti mandare una falsa traccia
verso il Vesuvio e l’Etna, tanto per prendere tempo, io pensavo a Triora per
cercare di metterci in salvo per le vie d’acqua”
“Ottima pensata querida, in quanto alle
false tracce sono già partite, trovare un sosia di Lu non è stato facile, quel
demone ha una strana aura, poi dovrai spiegarmi…”
“Certo pa, molto volentieri, ma ora
devo chiudere, fammi sapere se ci sono cascati, così partiamo”
“La mamma dice che le manca un gratta e
vinci da 20.000 dalla sua collezione, ne sai nulla?”
“Mi avvalgo della facoltà di non
rispondere” disse Linda ridendo.
“Ammissione di colpevolezza.” Disse
Lucifero ridendo.
“Ciao Principessa. Non fare casini, mi
raccomando.”
“Da quanto tempo non mi chiama
principessa” pensò Linda.
“Da quando ero piccola, e mi arrabbiavo
quando le cose non andavano come volevo.
Ora sono di nuovo piccola, molto piccola.
Vorrei sparire, vorrei annullarmi.
Vorrei non dover prendere decisioni,
oggi ho fatto un massacro, giuro che non volevo, ma Deus vult, no, non posso
sopportarlo.
Poi l’ho rivisto, dopo 500 anni, era
lui, sicuro, l’uomo che ha arso vivo il mio vero amore.
Ma perché non posso avere una vita normale?”
Pianse a lungo.
“Piccola, noi parliamo raramente, ma ci
amiamo nel profondo”
“Mamma” rispose mentalmente Linda.
“Che bello sentirti, come stai?”
“Sai che io sto da millenni, ma
tralasciamo i convenevoli, ricordi i Balzi rossi?”
“Certo, mi ci hai portato da piccola,
splendidi”
“E mi hai raccontato una storia
bellissima, di come dall’Africa alcuni coraggiosi siano riusciti ad arrivare
li”
“Sì, i miei figli, ed i figli dei miei
figli” C’era una punta di malinconia nella sua voce.
“Ma come sai Piccola, non amo i giri di
parole, i Balzi saranno la tua salvezza, è un po’ che ammucchio nella camera
segreta, armi, unguenti, pozioni e tutto ciò che potrebbe servirti, so che il
consiglio a breve nominerà un dittatore, anche loro si rendono conto di non
poter più procrastinare, immagino tu saprai chi è.”
“Si. Immagino” disse, e si sentì ancora
più piccola.
Il senato era strapieno, i senatori
giravano in tondo parlottando fra loro. Tutti sapevano che per una volta
avrebbero dovuto prendere una decisione.
La campanella suonò ed entrarono.
L’aula era enorme, tutti presero posto.
Dal fondo dell’aula una figura
avanzava, lenta ma sicura.
Coperto da un mantello cremisi il
Mercante avanzava.
Arrivato al pulpito, tolse il
cappuccio.
Era un omino azzimato, in un completo
blu, piccolo di statura, stempiato, sembrava l’impiegato di tanti racconti
sulla pubblica amministrazione.
“Buona sera “disse.
E guardò la sala.
Uno sguardo di ghiaccio che raggiunse
ogni presente, anche quelli delle ultime file.
Cadde un silenzio di piombo.
“Immagino, che tutti voi conosciate la
situazione” disse in un sussurro.
“I demoni, stanno cercando di cambiare
la storia e noi”
Disse
comprendendo con un ampio gesto tutto il senato.
“Noi, non possiamo permetterlo!”
Si aspettava un applauso ma la sala rimase
muta.
Forse non sarebbe stato così facile.
“Tutti voi” riprese “avete creato una
religione e dei precetti”
“Tutte le religioni, hanno un potere,
grande, molto grande”
Ci fu un mormorio di assenso.
“Ma” li guardò negli occhi.
“Ma avete commesso un grosso errore”
La sala era in subbuglio, ognuno
parlava con i vicini ed anche con chi stava lontano alzando la voce.
Li stava perdendo pensò il mercante.
“Ma” stillò dal palco.
“Ma io, se volete, ho la soluzione”
Calò di nuovo il silenzio.
“Io qui, ora, sono solo un ospite e
come ospite ho obblighi e doveri. Ma questa condizione, capirete, non mi
permette di lavorare per voi come vorrei”
Fece una pausa.
La platea era silenziosa non capivano
dove il Mercante volesse andare a parare.
“Ho studiato attentamente lo statuto”
disse
“Ed ho capito che l’unico modo per
entrare in questo augusto consesso è sposare un Dio o una Dea, ma c’è una norma
transitoria., mai abrogata che dice: Nella necessità impellente si può associare
a pieno titolo e con poteri paritari, chi venga Presentato da almeno tre dei ed
acclamato in assemblea.”
Ci fù un mormorio nella platea.
“Muhammad, Calì e shakti appoggiano la
mia candidatura”
“Io posso salvarvi, ma per farlo devo
essere uno di voi, quindi devo essEre acclamato”
Prima che il moderatore potesse
prendere la parola ci fù un applauso fragoroso.
“signori, signori, vi prego, le cose
vanno fatte correttamente, ora apro la procedura di acclamazione: chi è
d’accordo per accettare il Mercante come nostro pari deve alzare la mano dopo
il suono del campanello, ci siamo intesi ?”
Il brusio dalla platea poco a poco
scemò.
Il campanello suonò e quasi tutte le
mani si alzarono, dal fondo arrivò una sonora pernacchia bitonale, Manitù era
di poche parole.
“Bene” disse il moderatore “Abbiamo un
nuovo Dio, il Dio Mercante, un bell’applauso per la new entry”
sulle note della marcia di Radetzki
partì un’applauso tonante.
Il Dio Mercante risalì sul palco.
“Grazie, grazie” disse
“Ma è ormai l’ora di lavorare, vi prego
di fare silenzio”
Obbedirono
E nel silenzio il Mercante, spiegò la
soluzione, e le sue condizioni per metterla in pratica.
Il Cancelliere disse
“Bene è stata formalizzata richiesta di
dittatura, su di un piano preciso, avete tre ore, da questo momento per
decidere se accettare o rifiutare. Come noto una richiesta di dittatura
abbisogna del voto positivo dei quattro quinti del parlamento. La seduta è
aggiornata alle 15 di oggi.”
La sala si svuotava lentamente, da uno
degli ultimi banchi selina si alzò e si unì alla fiumana di gente.
“Appena fuori devo avvertire Linda” Pensò.
Il Paese S.
l paese di S. 2012/08/02 21:31
Il paese di S. sorge, da più di mille anni, sul lato nord dell’appenino ligure. Da sempre centro di scambi tra la bassa e la costa: percorso di sale e di carbone di legno e di mattoni, di funghi e di branzini, e di migranti ora su ora giù lungo l’antica stada. Sede di schole ecclesiastiche e di fieri cittadini repubblicani. Sempre in lotta, ora contro, ora a favore della repubblica di Genova. Paese strano, sempre controcorrente, ma sempre attento ai propri interessi: nei primi del settecento decide di costruire una chiesa, anzi un duomo, ma i mattoni costano cari e portarli da Savona non conviene e allora si costruisce una fornace, tanto il legno abbonda e si sfornano mattoni su mattoni, più di quanti ne occorrano ed il surplus lo si vende e si fanno soldi su soldi.
E con quei soldi si comprano i servigi, se non dei migliori, dei secondi artisti: pittori, scultori, decoratori, maestri nell’arte degli stucchi e chiunque dietro degno compenso possa abbellire la gloria del loro duomo.
Duomo che sarà occupato dai nazisti nella seconda guerra mondiale ed adibito a deposito di legname.
Truppe infreddolite spaccavano ciocchi di legname sui marmi delle tombe dei parroci defunti.
Poi il boom degli anni 60: le case che si vendevano come il pane ai cittadini arricchiti che pur di avere un pezzo di giardino sborsavano cifre esorbitanti.
Finite le case fu la volta delle cascine e poi dei fienili, infine del terreno edificabile: Vuoi la casa in campagna: costruiscitela...
Fu un periodo di ubriacatura generale i soldi zampillavano ovunque, bastava raccoglierli e tutti volevano raccoglierli.
Quindi bar e pizzerie, campi da tennis ed alberghi, fruttivendoli, panettieri, pasticcerie, e rivendite di funghi ovunque, in stagione e anche non.
Ma ovviamente non poteva durare e non durò.
Pian piano il grande fuoco divenne una fiammella.
Anche mio padre non seppe resistere alla tentazione.
Era forse il 1965, io avevo all’incirca 10 anni.
Dopo una allegra giornata al mare, stressati dal caldo di un giugno particolarmente afoso i miei genitori decisero per una puntata rinfrescante all’interno verso l’appennino.
Imbarcati me, mia sorella, di quattro anni più giovane, la mamma e le masserizie varie che ci accompagnavano nelle nostre gite, e che sarebbero state sufficenti ad allestire un campo profughi di medie dimensioni, nella capiente “Ford Taunus Station Vagon” che proprio un vagone sembrava tanto era grossa, facemmo rotta verso il verde appennino.
Il progetto credo fosse di trovare una trattoriola verace dove cenare, per poi, con calma, riprendere la via della città quanto il traffico si fosse ridotto, ritorno intelligente ante litteram.
Ma si sa l’uomo propone e dio dispone.
Il Dio minore, che in qualche modo cambiò il percorso della nostra vita, si materializzò sotto forma di un capriolo che tagliandoci la stada costrinse mio padre ad una bruschissima frenata.
Essendo nella bella Italia, che prendeva per il culo i tedeschi che viaggiavano infagottati nelle cinture di sicurezza, la frenata non fu priva di conseguenze.
Mamma e papà erano illesi ma io sanguinavo dal naso per la botta presa conto lo schienale del sedile anteriore e mia sorella frignava per non si sa quale contusione.
E siccome le disgrazie non vengono mai da sole la station wagon aveva lo pneumatico anteriore destro squarciato.
Il capriolo in compenso era illeso e ci guardava stupito dall’altro lato della carreggiata.
Eravamo in aperta campagna, mentre la mamma mi tamponava il naso, e consolava mia sorella il babbo, da navigato comandante, aveva preso la decisione.
“abbiamo appena passato il paese di S.” Disse” Potremmo tornare indietro e fermarci in un bar a sciacquare la ferita di Danilo e rifocillarci ,ma sarà più di un chilometro a piedi sotto il sole.”
“invece su quella collinetta vedo una casa aperta, ci arriviamo in cinque minuti, non ci rifiuteranno un pò d’acqua.”
Poi rivolto a me” Che ne dici capitano pensi di farcela?”
Io in realtà a parte lo spavento alla vista del sangue, non provavo alcun dolore.
Assunsi un’espressione che avrebbe voluto essere ad un tempo sofferente ma determinata, tipo vecchio soldato che non molla mai, e risposi.
“Sono sicuro di farcela”
“E voi principesse?” riprese rivolto a mia madre e mia sorella.
“Certo andiamo, direi che Gabriella non ha nulla a parte lo spavento” rispose la mamma.
Raggiunta l’unanimità, dopo aver accostato l’auto al ciglio della strada, ci avviammo.
La casa si rivelò un villino a due piani immerso nel verde.
Al cancello spiccava un grosso cartello rosso in cui era scritto “Vendesi ultimi lotti”
Mentre mi scervellavo per capire cosa potessero significare quelle parole mio padre scuoteva il campanaccio appeso al cancello.
Se c’era qualcuno nel raggio di 10 chilometri avrebbe saputo del nostro arrivo.
Qualcuno c’era e molto vicino.
Un signore dal volto rubizzo in abiti da città venne ad aprirci il cancello e si mise subito a parlare con papà.
Cinque minuti dopo eravamo sistemati in un soggiorno luminoso, il mio naso tenuto a lungo sotto l’acqua corrente non sanguinava più, mia sorella scorazzava da una finestra all’altra per vedere il panorama e mia madre, donna previdente, stava spalmando di marmellata alcune fette di pane che aveva estratto dal cestino da pic nic che si era trascinata dietro dalla macchina.
Quando mio padre rientrò col nostro ospite eravamo tutti e tre impegnatissimi a divorare pane e marmellata spargendo briciole ovunque.
Subito mia madre si scusò col padrone di casa per l’invadenza ed il disordine.
Quello fece un sorriso, ed indicando mio padre, disse: “Si scusi con questo signore, è lui il padrone di casa ora”
E fu così che divenimmo proprietari di un pezzetto del comune di S.
Amai quella casa e quel giardino ed i boschi circostanti per tutta la mia infanzia e la preadolescenza.
Era una casa aperta e quasi sempre avevamo ospiti.
Parenti amici, amici degli amici.
Il massimo era quando venivano a trovarci i cugini da Rimini e si fermavano qualche tempo.
Danilo, Gabriella, Eros, Davide e Gloria.
Mai banda di sciamannati più scombinata aveva battuto quelle campagne.
Che nostalgia per quelle lunghe giornate estive di ozio operosissimo, per quella stagione che sembrava non dovesse mai finire ed invece tutto ad un tratto ti ritrovavi in città seduto al banco di scuola e non riuscivi a capire come accidenti potesse già essere autunno.
Quanto avevo amato quella casa da ragazzo tanto la odiai da adolescente quando ero costretto a rinunciare alle vie del mondo perchè non ancora maggiorenne ed a rinchiudermi in quell’angusto giardino.
Appena potei fuggii dal luogo dei giochi infantili per tuffarmi nella confusione del mondo oltre il giardino.
Per anni vi tornai di sfuggita solo per una breve visita ai miei genitori.
Poi quando nacque mio figlio, ripresi ad amarla ed a frequentarla
Mia moglie e mio figlio vi trascorrevano le estati ed io li raggiungevo nel week end e mi fermavo durante le ferie
Costruii la casa sull’albero, che non avevo mai avuto, per mio figlio e credo anche lui ricordi con amore quel periodo.
Le gite le feste, la raccolta dei funghi, quando uscivamo che era ancora buio per tornare all’ora di pranzo spesso con un cospicuo bottino.
Poi anche mio figlio è cresciuto ed ha avuto lo stesso rifiuto.
Nel frattempo tante cose sono successe, mia madre è morta, mio padre è diventato cieco io ho chiuso l’attività.
Ed eccoci ai giorni nostri ed alla piccola storia che vi voglio raccontare.
La casa esiste ancora ma sono anni che non è più frequentata.
Vado una o due volte l’anno a prendere la numerazione dell’acqua o del contatore elettrico.
A vedere se è sempre in piedi, lo è ma sente il peso degli anni.
Oggi con mia moglie, mio figlio e mio padre siamo qui a S., siamo venuti per separarci per sempre da lei.
Siamo appena stati all’agenzia immobiliare dove l’abbiamo messa in vendita.
Pare che il mercato sia inflazionato, tutti cercano di vendere ed il nostro villino è messo maluccio come manutenzione.
Abbiamo dovuto calare parecchio sul prezzo ma daltronde quei soldi ci servono.
Ora al tavolino della gelateria della piazza centrale ne stiamo ancora discutendo.
Come ai vecchi tempi campari soda per noi tre e gelato per mio figlio michele che ormai ha 18 anni e potrebbe benissimo farsi un Campari, ma la tradizione è quella.
Ammicca quando pesca il gelato usando come cucchiaio una patatina fritta, come ai vecchi tempi!, sembra dirmi il suo sguardo.
“Tutto come ai vecchi tempi” mi apostrofa Martino il titolare, nonchè cameriere, gelataio, banconiere e anima del bar Centrale.
“Già, quasi” rispondo io.
Ma Martino stà già salutando mio padre, scaruffando i capelli a Michele e facendo il galante con mia moglie, il tutto contemporaneamente.
Dopo i convenevoli ci chiede come mai dopo tanto tempo lo onoriamo della nostra presenza.
Con Martino ci conosciamo fin da ragazzi quindi senza menare il can per l’aia gli racconto che siamo alla canna del gas, ci servono soldi e subito per sopravvivere.
Martino mi ascolta interessato e serio, poi prende una sedia e si siede di fronte a me.
“Posso unirmi alla tavolata?”
“Ma certo Martino fai come fossi a casa tua” rispose mio padre sorridendo”
Martino mi guarda negli occhi a lungo poi quando ormai penso gli sia preso un ictus parla:” Danilo, ti faccio una proposta che non puoi rifiutare e che ti cambierà la vita”
Martino è un personaggio così, poliedrico, sempre iperattivo, capace di sparare mille parole al minuto ma quella volta nel suo sguardo c’era un intensità che non conoscevo.
“Dimmi tutto” risposi.
“Allora” lunga pausa in cui pensai stava raccogliendo le idee”Devi conoscere Don Firmino Lavizzari”
Ora, tra proposte che non puoi rifiutare e la conoscenza di un non meglio specificato Don, mi sembrava di essere precipitato nella provincia palermitana.
Mi avrebbe chiesto di gambizzare qualcuno o di riscuotere il pizzo dai negozianti del paese?
“Spiegati per favore Martino, chi è stò Don e qual’è la proposta che non posso rifiutare?” risposi.
“Il Don è il parroco no? Tu fai sempre il restauratore no? Ed hai bisogno di soldi no?”
“Di ancora una volta no? E ti uccido”
“No” disse Martino sorridendo, sorrisi anche io.
“Senti Martino sai che noi comunisti non amiamo molto la chiesa quindi o ti spieghi....”
“Danilo il Don è diverso vedrai che vi trovate, avete almeno due cose in comune”
“ E quali sarebbero?”
“Entrambi odiate Berlusconi ed amate il vino buono”
“Ed in più il parroco deve restaurare 25 lampadari del duomo”
Il colpo era ben sotto la cintura e lo accusai.
“Martino quando si può parlare col parroco?”
“ Anche subito mi tolgo il grembiule e ti accompagno in canonica ma....”
Avevo la testa che mi ronzava, venticinque lampadari, almeno 6.000 euro di lavoro, la manna giunta dal cielo, ma c’era un ma.
“Ma cosa?”
“Ma prima devi almeno dirmi grazie no?”
Lo ringraziai un milione di volte, dopodichè ci incamminammo verso la canonica.
“E tua sorella che fine ha fatto?”
“E’ in Giordania, suo marito ha attenuto un posto di lettore all’università di Amman”
“A bella Amman ci siamo stati l’anno scorso in gita con il Don”
“Ma stai scherzando?”
“No davvero, abbiamo trovato un pacchetto economicissimo, l’anno prima siamo andati a Gerusalemme, comunque eccoci arrivati”
La canonica era un corpo unico con il duomo ma leggermente arretrata e dipinta di un rosa tenue cosicchè si capisse che era solo un’abitazione e non un luogo di culto.
Il duomo era invece imponente con le sue sei colonne di arenaria che reggevano un frontone di uno stile indefinibile, a destra stava la canonica ed a sinistra un campanile altissimo sormontato da una croce di ferro, ancora non lo sapevo ma quella croce mi avrebbe salvato la vita. Ma non anticipiamo i tempi.
Alla terza scampanellata priva di riscontro Martino disse: “Strano, non risponde, a quest’ora in genere è sempre in canonica ma che scemo sono, sarà nell’orto no”
Ci fece segno di seguirlo, aggirammo la canonica e ci trovammo di fronte ad un portale a sesto acuto tipicamente medioevale.
Martino tirò la cordicella del saliscendi ed entrammo.
Fu un piccolo passo per noi umani, fisicamente avevamo percorso un paio di metri scarsi, ma temporalmente direi all’incirca un millennio.
L’orto come lo chiamava Martino, sembrava uscito da una miniatura dell’anno mille.
Al centro il pozzo di pietra corrosa dagli anni e tutto intorno a cerchi che si allargavano alberi da frutta e viti aggrappate a tralicci che dovevano già essere vecchi al tempo della prima crociata.
Una meridiana di pietra del diametro di circa tre metri inclinata veso sud ci comunicava che era mezzogiorno, concetto ribadito pochi istanti dopo dal campanile del duomo.
Il profumo, i profumi erano talmente intensi da stordire, il frinire delle cicale mi riempiva la testa, cercavo di spiegare a mio padre lo spettacolo che avevamo di fronte, lui annuiva, anche senza vedere percepiva quel senso di maestà che solo la natura può comunicarci.
Martino ci guardava di sottecchi, lui sapeva, lui lo aveva visto tante volte e probabilmente godeva di averci reso partecipi di quel segreto.
“Manca solo che spunti Guglielmo da Baskerville fra le fronde”
E, come evocato dalle mie parole Guglielmo spuntò.
“Ciao Martino, chi mi hai portato di bello oggi”
La somiglianza con il Sean Connery nel film tratto da “il nome della rosa” era impressionante.
“Buongiorno Don” dissi
“Buongiorno a te capitano, ed alla tua famiglia”
In quel momento capii che mi era stata fatta una proposta che non avrei potuto, ne voluto rifiutare, capii che era nata un’amicizia che si sarebbe sciolta solo con la morte di uno dei contraenti e purtroppo andò a finire proprio così.
Tempo dopo, quando eravamo ormai amici, chiesi al Don come poteva sapere che “Capitano” era il soprannome con cui mi chiamava mio padre quando ero piccolo.
“Potrei raccontarti che le vie del signore sono infinite ed imperscrutabili” rispose “Ma non mi crederesti, semplicemente vedendoti stagliato sul portone così alto pelato,coi calzoni neri e la camicia bianca mi hai ricordato il capitano di un film di cappa e spada che ho visto da giovane”.
“Forse avrei creduto più facilmente a quella delle vie del signore”
Risposi.
Dopo aver fatto le presentazioni il Don andò subito al punto.
“Vedi Danilo, non ti spiace se ti do del tu vero?”
“Certo che no” risposi”
“Bene, il fatto è che una pia donna, morta il mese scorso, alla ragguardevole età di novantotto anni, ha lasciato alla parrocchia una discreta somma di danaro per il lustro ed il decoro del nostro splendido duomo, ha scritto proprio così nel testamento.
Ora come ti avrà già detto Martino abbiamo venticinque bellissimi lampadari ma ne funzionano solo sei ed anche quelli temo abbiano le ore contate. Saresti in grado di ripararli?”
“Dovrei vederli” dissi ”ma ho passato quindici anni a riparare e restaurare lampade e lampadari quindi una qualche esperienza ce l’ho”
“Bene allora andiamo a vederli, vi faccio strada” Così dicendo il Don si avviò, attraversando il giardino, verso una porticina dipinta di un anacronistico azzurro che ricordava le porte delle case dei pescatori greci.
Da quella porta entrammo in canonica, attraversammo l’ampia cucina dominata da una stufa in ceramica di una bellezza sconvolgente e che doveva risalire ad occhio a metà dell’ottocento e attraverso un’ altra porta, questa volta marrone, entrammo in duomo.
Per inciso, tempo dopo, quando potei osservare più attentamente la stufa mi resi conto di aver preso, come spesso ai restauratori capita, una cantonata.
Sulla stufa era inciso ancora leggibilissimo “Ignatio Badan fecit 1798”
Azz, altro che metà ‘800 !
Il duomo era uno spettacolo, un’unica enorme navata barocca scintillante di ori e marmi.
L’avevo gia visitata alcune volte da ragazzo ma non la ricordavo così ricca ed affascinante.
Ma soprattutto non ricordavo i lampadari.
Quando Martino me ne aveva parlato mi ero fatto un’immagine mentale di 25 lampadarietti Luigi XVI a 6 luci, quelli che ti aspetti di trovare in una chiesa di campagna.
Ma quella non era una chiesa di campagna, era il duomo di una comunità molto ricca ed operosa.
I sedici lampadari di taglia più piccola erano dei Luigi XVI a otto fiamme col fusto in legno intagliato e dorato i bracci in ferro dorato adorni di una miriade di catene di cristalli in parte di rocca, in parte di bohemia che sembrava fossero state lanciate con la fionda e li lasciate a raccogliere la polvere dei secoli.
Disposti in due file di otto, pendevano da una balaustrata posta all’incirca ad una quindicina di metri dal pavimento.
Avvicinandomi al presbiterio finalmente capii in cosa consisteva la sfida, a coppie giustapposte pendevano nell’ordine due Luigi XVI a due palchi da 18 fiamme l’uno, due lampadari di murano sicuramente pre ottocenteschi con il fusto in legno dorato da ventiquatto fiamme l’uno, due Luigi XVI a dodici fiamme, due Murano a dodici fiamme, ed in fine altri quattro Luigi XVI a dodici fiamme.
“Martino se la matematica non è un’opinione io ne conto ventotto non venticinque” dissi, non era un’osservazione molto acuta, ma in quel momento non avevo trovato di meglio per rompere il silenzio che si era creato mentre attraversavamo la chiesa con lo sguardo all’insù.
“Ma i primi quattro dall’ingresso li abbiamo fatti riparare l’anno scorso e funzionano”.
“Allora sono ventiquattro”
“No il venticinquesimo è in sacrestia, seguimi e come fosse il padrone di casa mi trascinò oltre una porticina.
La sacrestia era completamente rivestita da una boiserie di legno scuro legno scuro, probabilmente rovere tinto, nel quale erano incastonati due grossi armadi piemontesi ed uno scrittoio a ribaltina in stile barocco francese che però non stonava per nulla con l’arredo.
Dal centro del soffitto pendeva una grossa lampada votiva sornontata da uno splendido vetro soffiato di forma ogivale.
La Luce proveniva da una coppia di appliques in bronzo dorato al mercurio e da una finestrina di veti policroni legata a piombo Rappresentante S.Rocco con il suo cane.
“E’ dall’atro ieri che non funziona, abbiamo chiamato l’elettricista ma figurati, siamo in stagione, con tutte le ville aperte non ha un momento di tempo”
“Hai provato a cambiare la lampadina?”
“Meno male che esisti, che stupido sono non ci avevo pensato, sai io sono un campagnolo mica un cittadino imparato come te”
Fece una pausa e mi sorrise sardonico “Certo chè ho provato è la prima cosa che ho fatto”.
“Ok scusa, dov’è l’interruttore?” Mi vece un gesto vago verso il lato sinistro della porticina.
“Questo non è un interruttore è un pulsante, il lampadario si accende anche da qualche altro punto ?”
“No, che io sappia no”
“Quando funzionava faceva un tack all’accensione?”
“Si, mi pare proprio di si”
“Bene ora ti faccio vedere una magia da capitano e ti dimostro che i lampadari sono ventiquattro”.
Estrassi il mio cacciavite cercafase che porto sempre con me come portachiavi ed iniziai a smontare il pulsante, avevo il 50% per cento di probabilità, avrebbe anche potuto essere il relais, ma in genere nelle piccole cose sono fortunato, è in quelle grosse che la sfiga mi usa come test della vista.
Come immaginavo il filo nero era staccato, lo rimisi a posto e chiusi, poi con un “tadan” pigiai il pulsante, e la luce fu.
Quando tornammo nel duomo, tra il Don ed i miei familiari, ferveva il dibattito politico ma in realtà era una dicussione in cui tutti i partecipanti avevano, sia pure con sfumature diverse, la medesima opinione riassumibile in quattro parole anzi, in tre parole e mezza: Berlusconi è uno str....( Sapete tengo famiglia e mi ci manca solo una querela per vilipendio al nano asfaltato).
“Allora Don” esordì Martino “Il lampadario in sacrestia è a posto ora potremmo parlare degli altri ventiquattro”
“Bene Capitano, se ne ripari uno ogni dieci minuti, direi che per doman sera il lavoro è finito” disse il Don ridendo.
“La vedo leggermente più difficile, ad occhio e croce direi che ci vorranno tre o quattro mesi, se tutto va bene, ma per fare un preventivo di tempi e costi ci devo pensare su’ un po e fare due conti”
“ Pensaci quanto vuoi ma per Natale vorrei averli finiti, in quanto al costo Martino mi dice che sei onesto quindi mi fido. Ma ora” disse levando in alto il braccio destro “E’ ora di pranzo e non amo tardare a questo importante appuntamento, avessi saputo avrei fatto preparare anche per voi ma Martino mi fa le improvvisate”
“Don non ho la palla di cristallo” rispose Martino piccato.
“Facciamo così” dissi “Mi prendo un paio di giorni poi chiamo Martino e ci diamo un appuntamento qui, ovviamente non in ora di pranzo”
“Affare fatto” rispose subito il Don “ Ma ci vedremo proprio in ora di pranzo se mi avverti in tempo. Si parla meglio con le gambe sotto al tavolo, davanti ad una buona bottiglia e ad un piatto di cinghiale in umido. Ora vado che sono già in ritardo, serena giornata a tutti. Li accompagni tu Martino?” detto questo si avviò a grandi passi verso la canonica.
Quando fu oltre la porta commentai “ Che tipino !”
“E non l’hai visto al massimo” chiosò Martino “Andiamo che anche io ho un certo appetito”
Certo che l’aria di campagna mette fame....
Il viaggio di ritorno verso Genova fu un accavallarsi di commenti e risate, in effetti il Don era un personaggio ed anche Martino,che conoscevamo da anni, appariva in una nuova luce, e poi la prospettiva finalmente di un lavoro duraturo mi metteva di buon umore.
La sera davanti al pc tentai un ipotesi di preventivo, ma era un’impresa impossibile, avevo troppo pochi dati, quindi chiamai Martino: “Ciao Martino, che ne dici se domani vengo sù e prendo un pò di misure e faccio qualche foto? Ho troppo pochi elementi per fare un preventivo credibile.”
“Benissimo” mi rispose “ ma ti conviene venir sul tardi, che c’è un funerale alle 11”
“Ok, vengo per le quattordici, va bene? A proposito chi è morto?”
“Non credo tu lo conosca, Bastianino Rossi lo chiamavano l’Amo”
“Certo che lo conosco, non è il padre del macellaio, quello curvo come un punto interrogativo?”
“Certo, per quello lo chiamavano l’Amo no? 92 anni, la sua parte l’ha fatta”
“Già, a domani allora”
Me lo ricordavo bene Bastianino quando da ragazzino andavo a comprare nella sua macelleria-salumeria, era giovane ma già un pò curvo, sempre gentile e cerimonioso, elegantissimo con la sua camicia bianca sotto la cappa e l’immancabile cravatta a farfalla. Ricordo che tagliava il prosciutto crudo con la cura di un chirurgo coscienzioso che eseguisse un’operazione a cuore aperto.
Finito di tagliare pesava l’involto e dopo, solo dopo, aggiungeva una manciata di olive nere sul salume affettato:”Queste sono omaggio” diceva ogni volta ”mica le ho pesate” e mi sorrideva.
Lo avevo rivisto sporadicamente negli anni sempre più curvo, ma sempre di buon umore, si aggirava nella macelleria gestita dal figlio, senza un compito preciso, se non quello di occupare il tempo.
Pensando a lui mi venne in mente un aneddoto che mi aveva raccontato mio nonno, tanti anni prima e che evidentemente avevo rimosso.
Si era a Rimini, al funerale di non ricordo quale parente, io avrò potuto avere una dozzina d’anni, dopo la messa nel sagrato della chiesa i convenuti parlottavano fra loro aspettando l’uscita del feretro.
Io ero affianco al nonno Gigi, mentre i mie genitori salutavano parenti che non vedevano da anni.
Il nonno, vecchio pescatore, col viso bruciato dal sole guardava per terra con espressione assorta, a me incuteva molta soggezione anche perchè di lui si narravano storie cruente di quando partigiano pare avesse fatto fuori due tedeschi armati di mitra col solo suo coltello da pesca.
“Vedi burdel quello” disse indicando la chiesa ed alludendo al morto “era un federale, un coglione ed un patacca. Da giovane ha dato da dire con tutti, e credo ne abbia mandato in galera parecchi, io mi sono salvato perchè eravamo parenti”
Sputò per terra come a sottolineare che di certe parentele avrebbe fatto volentieri a meno.
“Quando c’era il Duce, che il diavolo se lo tenga, era alto e dritto come un fuso,parlava forte e dava soggezione a tutti, poi dopo la liberazione è venuto in ginocchio a pregare che non aveva colpa, che lo ordinavano così, “
Il tempo sembrava essersi fermato, non sentivo le voci di chi mi stava attorno, sembrava che sul sagrato ci fossimo solo io ed il nonno, cercavo di immaginarmi cosa dovesse essere stato quel dopoguerra.
Il nonno riprese:“Giastima, mi diceva, io ti ho sempre protetto quando potevo ora mi devi aiutare tu”
Giastima, in dialetto Bestemmia era il nome da comandante partigiano di mio nonno e questo la dice lunga sulla sua storia.
“Giastima, se non mi salvi tu io sono morto, giuro che mi pento e starò sempre a capo chino davanti a tutti perchè ho sbagliato. L’ho salvato. Non se lo meritava ma l’ho salvato.”
Tacque, io cercavo di assimilare ciò che avevo sentito.
Poi riprese:”Da quella volta girò sempre a capo chino, sempre più piegato verso terra, dicevano che erano le vertebre, ma io lo sò che era la vergogna, settimana scorsa sono andato a trovarlo in ospedale si vedeva che era in fondo, era piegato come un’amo, poteva dormire solo sul fianco, Mi ha detto: Giastima ti chiedo perdono ora che me ne vado, perdonami. Io ti perdono, gli ho risposto, ma devi chiedere anche agli altri quando li incontrerai.
Quando è morto per metterlo nella cassa dicono che gli hanno dovuto spezzare la schiena che sennò non si chiudeva. Non so se è vero, spero di no”
“Speriamo di no” risposi.
Il nonno, quando anni dopo morì, era ancora dritto come un fuso.
Mi rendo conto che questo racconto è una continua digressione, un giardino dei sentieri che si biforcano e sembrano non portare in nessun luogo.
Forse perchè ho paura di quel luogo, di quel tempo, e di un fantasma che, dopo cinque anni, aleggia ancora nella mia mente.
Ma abbiate fiducia, ci arriverò e forse ricordando, riuscirò a capire ciò che non ho capito a suo tempo.
Preso l’appuntamento con Martino dovevo organizzare gli strumenti per il sopralluogo, per una volta tanto volevo fare il razionale, per cui stilai la lista degli oggetti che mi occorrevano, non era una lunga lista:
Misuratore ad ultrasuoni X
Rotella metrica X
Macchina fotografica ?
La mia si era rotta un mese prima, certo potevo farmi prestare la Kodakina da mia cognata, ma la qualità di quelle macchinette, soprattutto nella mezzaluce di una chiesa,non era proprio l’ideale, e poi presentarmi con una macchinetta così sarebbe sembrato poco professionale.
Sasso, pensai, Steva Sasso poteva salvarmi.
Steva era un vecchio amico dei tempi del liceo, in quegli anni eravamo inseparabili, poi i sentieri della vita ci avevano allontanato, ma le amicizie vere non si rompono mai ed ogni volta che ci reincontriamo, magari dopo anni, è come ci fossimo salutati la sera prima.
Di mestiere da anni faceva il grafico pubblicitario e sicuramente aveva una macchina fotografica seria.
Lo chiamai in ufficio.
“Ciao Steva sono Danilo”
“Ma non eri morto a Leningrado?”
“1997 ,obviously , ma sai, a volte ritornano”
“Questa è talmente banale che non la commento, qual buon vento ti mena verso le mie sponde Capitano?”
I dialoghi con Steva erano più o meno sempre deliranti ma ci capivamo alla perfezione.
“Mi serve un favore Steva, possiamo vederci?”
“Certo, basta non siano soldi, passi in ufficio? io ci sono ancora per una mezzora, poi pausa pranzo”
“Rimani li stò arrivando, terzo piano?”
“Quinto, il portone è il 15, l’interno 18”
“5, 15, 18 Ok me li gioco al Lotto”
“Contro la stupidità neppure gli dei possono nulla”
“Mister Schiller I suppose? Dai arrivo”.
In quel periodo io e la mia famiglia eravamo ospiti in casa di mio padre, perchè avevamo appena venduto la casa e stavamo cercandone un’altra.
Lo so, che prima si trova quella nuova e solo dopo si vende la vecchia, ma ci era capitata un’ottima occasione e l’avevamo colta.
In ogni caso da via Ravasco, sede temporanea a via S. Luca sede dell’ufficio di Steva mi ci vollero solo 5 minuti a piedi
Altrettanto ci mise l’ascensore ad arrivare arrancando dal piano terra al quinto.
Mi sbarcò in un corridoio sul quale si affacciavano 5 porte.
Su una delle porte si stagliava un 18 alto un metro e largo settanta centimetri, come dire, indicazione a prova di fesso, Steva non si smentiva mai.
Suonai il campanello.
“Allora Capitano, qual buon vento?”
“Ciao compare, ma l’ascensore l’ha progettato Leonardo da Vinci?”
“Già e credo sia lui che lo muove a forza di braccia dalla cantina”
Non ci vedevamo da alcuni anni ma Steva non era invecchiato di una virgola: alto, segaligno, capelli grigi tagliati a spazzola, magro come un chiodo e vestito come un gentiluomo di campagna inglese.
“ Vieni sediamoci” disse facendomi strada dentro l’ufficio.
“Bello commentai un pò claustrofobico ma elegante”
Era una stanzetta di tre metri per quattro con una piccola finestra sul lato corto, tutte le pareti erano coperte di scaffalature piene di libri giornali e quant’altro al centro incastonata tra le scaffalature stava una vetrinetta che conteneva una trentina di robot giocattolo il più recente dei quali doveva avere almeno quaranta anni.
“Vedo che la passione per i robot non ti ha abbandonato.”dissi.
“Mai, come diceva Gort.....”
“Klaatu barada nikto”
“Bene ora che abbiamo assodato che l’Alzhemer non ci ha ancora scovato, veniamo al dunque, qual’è il problema” mi disse andandosi a sedere dietro la scrivania ed indicandomi una sedia dall’altra parte.
La scrivania, le sedie ed il lampadario erano Kartell trasparenti e davano un tono glamour all’ufficetto, sulla scrivania troneggiava un Apple collegato ad un paio di stampanti.
“Perchè due stampanti credevo lavorassi solo on line” chiesi.
“Non me ne parlare, quella” disse indicando la più grossa delle due “E’ una Xerox a cera, divora i toner alla velocità della luce e ne ha quattro ogniuno dei quali costa attorno agli 80 euro”
“Non sapevo neppure esistessero le stampanti a cera, a cosa serve, oltre a farti spendere un bel pò di quattrini?”
“Come sai il mio lavoro consiste nell’impaginare la rivista “mondo natura” rivista che è composta all’80% di foto.Quello che forse non sai è che le foto viste sullo schermo del computer hanno un cromatismo diverso da quelle stampate, la stampante a cera rende il cromatismo della stampa e mi consente di correggere le distorsioni prima di mandare il materiale a Milano.
Ormai ci riesco quasi sempre ad occhio, ma siccome gli amanti del fringuello del botswana o della rana artica sono dei rompicoglioni spaziali sui colore dei loro animaletti, spesso devo fare una stampa per capire la resa.”fece una pausa poi aggiunse
“Dopo questa breve lezione sul meraviglioso mondo dell’editoria veniamo a noi, che favore ti serve?”
Gli spiegai il lavoro che dovevo fare e la necessità di una documentazione fotografica decente.
Mi guardo per un attimo perplesso come dovesse prendere un’importante decisione poi parlò
“Come forse sai tutto questo” e fece un gesto circolare che comprendeva tutto l’ufficio” appartiene a mia moglie” si alzò ed estrasse da uno sportello del mobile alle sue spalle una Canon EOS che doveva costare un botto” ed anche questa appartiene a lei, quindi se dovesse tornare alla base con un minimo graffio non esiterei a darti in pasto a lei, uomo avvisato....”
Conoscevo sua moglie Carla da secoli, era una delle persone più miti del mondo ed aveva orrore della tecnologia, ma il messaggio era chiaro.
“No se preocupe, ne avrò cura come di un figlio”
“Bene ora si va a fare la pappa che nuoio di fame”
“Sempre Gran ristoro?”
“Sempre io sono un uomo fedele, lascia qui la macchina la prendi al ritorno”
Uscimmo, ovviamente scendemmo per le scale, povero Leonardo, doveva aver avuto una mattinata dura, meglio non disturbarlo.
Usciti in stada ci immettemmo nel flusso delle persone multicolori e multirazziali che affollano sempre via S. Luca nelle ore diurne.
“TI va una Lucky” disse steva porgendomi il pacchetto.
“Certo ormai posso permettermi solo le MS”
“Merda Secca” chiosò.
“Morte Sicura”risposi accendendo.
Ormai eravamo in piazza Banchi, svoltammo verso il mare e poi a sinistra sotto i portici di Sottoripa.
La coda in attesa fuori dal “Gran Ristoro” era fortunatamente esigua, una decina di persone. D’altronde erano quasi le quattordici, ed il grosso aveva già mangiato.
Ci accodammo pazienti.
“Con lo scrivere come sei messo?” chiesi a Steva mentre sentivo che alle mie spalle la coda si allungava.
“Bene, mi hanno pubblicato un racconto in un’ antologia, e ne sto scrivendo un altro, carino credo, ambientato nella Genova di inizio secolo”
“Azz, Sasso, stai diventando famoso e non mi dici nulla?”
“Dai quando torniamo sù ti regalo una copia”
Il “Gran Ristoro” era un locale piccolissimo, forse due metri per cinque, ma faceva i panini migliori di tutta Genova, me lo aveva fatto conoscere Steva, dieci anni prima, Ricordo che infervorato in chi sa quale progetto avevo ordinato un panino: cotto e pomodori, per la serie la fantasia al potere,mentre parlavamo avevo iniziato ad azzannare il panino, e come d’incanto avevo sentito il gusto del pomodoro della mia infanzia, il vero pomodoro, non quelle cose rossissime, dal gusto di cartone che compri al supermercato.Quando giunsi al prosciutto i miei sensi partirono verso la mia Romagna, terra delle mie radici, come avevo potuto accettare per anni di mangiare una cosa che chiamavano prosciutto e che era una via di mezzo tra una medusa ed un foglio di polistirene?
“Sei ancora con noi, o il Dio dell’universo ti ha appena chiamato a se?”
“Ci sono Steva, ci sono” risposi ancora immarso nei ricordi gustativi.
“Allora ordina che intasiamo la fila !”
“Tu cosa hai preso?”
“San Daniele e toma ed un bicchiere di Gallo Nero”
Mi sentivo osservato e guardai verso la fila che si snodava verso l’uscita.
Mi guardava con gli occhioni sgranati a tre persone di distanza.
Carina, capelli neri divisi al centro della fronte,naso un pò lungo ma simpatico, occhi forse verde e castano, alta, fisico asciuttto, un vestitino arancione corto, che esponeva delle belle gambe, le scarpe non riuscivo a vederle ma avrei scommesso che fossero arancioni.
“Base terra chiama Danilo, qualche problema, l’ Alzhemer ti ha finalmente scovato?”
“Scusa Steva prendo quello che prendi tu”
La guardai negli occhi e sorrisi, lei ricambiò.
Poi venni trascinato fuori da Steva.
Quella fu la prima volta che vidi Lara, ma ancora non sapevo.
Ancora non sapevo nulla, ma se avessi saputo, forse avrei fatto lo stesso percorso.
“Direi che possiamo sederci su una panchina dell’expò per consumare il nostro frugale pasto” disse Steva.
“Ottimo”risposi” però il Gallo Nero nel bicchiere di plastica....”
“Avresti preferito il Tavernello nel bicchiere di cristallo?”
“No, ma la forma è contenuto”rispondevo automaticamente, stavo ancora pensando a quel sorriso.
“Già ed il mezzo è messaggio” rispose Steva poi a bruciapelo”La conosci o è il tuo proverbiale fascino.”
“Steva, parlami del tuo nuovo racconto”dissi, la miglior difesa è l’attacco.
“E’ un racconto di spiritismo fantascientifico, ambientato a Genova nei primi anni del secolo, il protagonista è un giornalista del Caffaro”
“Interessante, quindi c’ è anche la ricerca storica”
“Anche ed anche i viaggi nel tempo, se ti interessa ti faccio avere le bozze”
“Certamente magari ti correggo qualche errore di ortografia” risposi sorridendo.
L’indomani a mezzogiorno ero seduto nel dehor del bar Centrale a sorseggiare il mio Campari in compagnia di Martino, era ancora presto per la clientela abituale e quindi potevamo fare due chiacchiere mentre sua sorella al banco serviva da sola i rari avventori.
“Dunque hai deciso di accettare?” mi domandò diretto Martino.
“Non so, è un lavoro enorme, per ora faccio qualche foto e prendo un po di misure, poi vedo di fare un preventivo, allora mi sà che sarà il Don a non accettare, verrà una bella cifretta”
Martino voltò il capo per dare un’occhiata dentro il bar, tutto tranquillo.
“Danilo, il Don è un po eccentrico ma non è uno sprovveduto, credo si renda benissimo conto della quantità di lavoro ma la parrocchia proprio povera non è e quei lampadari meritano”
“Si sono splendidi ed è una sfida che mi affascina ma da solo temo di non farcela”
“E chi ha detto che sarai solo? Il Don sta già organizzandoti una squadra di volontari, il Capitano dice cosa bisogna fare e la squadra lo fa, semplice no?”
“Quindi date per scontato che lo farò?”
“Diamo per scontato che si farà, se vorrai essere tu a farlo te ne saremo tutti grati, sennò...”
Era una discussione oziosa, io volevo quel lavoro con tutte le forze ma volevo farlo bene.
“Ho già una mezza idea di come procedere” risposi “Abbiamo un trabatello abbastanza alto? Perchè i piccoli possiamo calarli con le carrucole e lavorarci a terra ma quelli grossi non possiamo spostarli.”
“Abbiamo il trabatello alla chiesa di S. Luca, fuori paese, è altissimo, sei elementi mi pare, basta portarlo qui ed il gioco è fatto”
“ok ora vado a fare un po di spesa poi dopopranzo vado in chiesa a fare le foto”
“Buon appetito” rispose Martino alzandosi” vado anche io, che mi par di vedere un po di movimento”.
In effetti il bar si stava popolando di avventori per il rito dell’aperitivo e della chiacchiera pre prandiale, salutai alcuni conoscenti e mi avviai verso la macelleria per organizzarmi il pranzo.La macelleria era ovviamente chiusa per lutto, ma ormai le mie papille gustative si aspettavano le costine al forno, quindi feci un rapido dietrofront ed attraversai la strada diretto alla macchina.
Ora, il mio angelo custode di solito sonnecchia, ma quel giorno doveva essersi fatto un overdose di caffè, Infatti la rombante Kawasaki mi mancò per un soffio, mi voltai per mandare affanculo il centauro, era ormai lontano ma non abbastanza da non farmi pensare che quei capelli corvini, che spuntavano dal casco e quel vestitino arancio li avevo già visti, non molto tempo prima.
”Vedi che avevo indovinato” dissi fra me e me “Le scarpe sono arancioni”
“Danilo !” mi sentii chiamare dall’altro lato della strada, era Martino con in mano una bottiglia, ci venimmo incontro.
“Il Don ti manda questa in omaggio è un rosso delle sue vigne”.
“Ringrazialo da parte mia, sai mica chi è quella matta in moto che a momenti mi arrotava?”
“Lara Monti, abita un paio di kilometri fuori paese in una casa isolata sul fiume, sarà un paio d’anni che si è trasferita.”
“Tutto qui?, la gazzetta del paese è a corto di notizie” Gli dissi sorridendo.
“Fa una vita molto riservata, viene poco in paese, il figlio studia fuori e lei lavora a Genova.”
“Ed il marito?”
“Separata, ma con ti starai mica facendo delle storie in testa?, guarda che quella è pericolosa.”
“Lo so ha appena tentato di uccidermi. Ma dai che storie vuoi che mi faccia non ho mica più diciotto anni, senti esiste ancora quella macelleria a San Luca, avevo voglia di due costine per pranzo.”
“Per esistere esiste ma sarà chiusa, comunque Saro abita di sopra suoni il campanello e ti apre il negozio.”
“Per due costine?”
“Anche per una, basta che veda il colore dei soldi”
“Grazie della dritta vado subito e ringrazia il Don della bottiglia” salii in macchina e mi feci i sette chilometri sino a San Luca, chiamarlo paese era eccessivo anche ad essere di manica larga, una ventina di case appiccicate, attraversate dalla provinciale, un bar trattoria tabacchi con una graziosa pergola di vite fragolina, un fruttivendolo ed il mio macellaio.
Fortunatamente era ancora aperto ed anzi stava in quel momento una signora carica di borse, se era tutta carne doveva aver invitato a pranzo Gargantuà.
Entrai, dietro il banco un’ometto con la coppola stava disossando un prosciutto crudo, alzò gli occhi e mi sorrise.
“Spero di non essere troppo in ritardo, vorrei delle costine di manzo”
“Ma che ritardo” mi rispose con un forte accento sardo”Il lavoro ,lavoro è, pe quante persone?”
“Una, sono solo.” Il sorriso gli si attenuò visibilmente ma prese a tagliare tre costine le pesò e incartò.”Serve altro?” chiese gentilmente, probabilmente si domandava chi fosse quel fesso di turista che si era fatto minimo sette chilometri per comprare tre costine.
“Un informazione : sa mica quando apre il fruttivendolo qui accanto avrei bisogno anche di un po di verdura, il sorriso illumino nuovamente il suo viso.”E’ di mia moglie, ma le apro io andiamo.” E si avviò “Devo ancora pagarle la carne?” obbiettai.
“ Tutto un cunto facciamo alla fine paga”.
Finalmente alle 14 arrivai a casa. Attraversai in qualche modo il giardino invaso di erbacce, mi aprii un varco nell’edera che blindava la scala d’accesso al primo piano e finalmente riuscii ad entrare. Accesi il contatore della luce, attaccai il frigo, lo riempii delle mie provviste, poi decisi di metterci anche il vino, si che il rosso va bevuto a temperatura ambiente ma non quando nell’ambiente ci sono trenta gradi.
Ovviamente mi ero dimenticato di aprire il rubinetto centrale dell’acqua. Ridiscesi a piano terra, già che c’ero accesi il forno e lo caricai di carbonella. Una buona mezzora dopo attaccai il Gazpacio che avevo preparato come primo piatto e le costine.
Uno dei pranzi più gustosi della mia vita la carne era tenerissima e saporita, il vino stupendo il Gazpacio era gazpacio ma si sentiva che le verdure erano veraci e freschissime.
Ora ci sarebbe voluto un pisolino all’ombra di un albero ma il dovere chiamava.
Erano quasi le 15 “ E perbacco” esclamai, citando mio nonno” il padrone ce l’abbiamo con noi no”.
Quindi mi arrampicai sulla casa sull’albero di Michele misi la sveglia mentale, ma pure quella elettronica del telefonino, sulle 16 e mi lasciai cadere nel sonno.
Ovviamente sognai Lara, un sogno confuso ed abbastanza angosciante: correvo lungo il sentiero di un bosco che conoscevo bene, sapevo di essere in ritardo per qualcosa, forse un'appuntamento importante, era l'imbrunire ed il sentiero iniziava a scendere sempre più ripido, vedevo avvicinarsi il grande noce che indicava il limite del bosco oltrepassatolo avrei incontrato la statale, lo raggiunsi e sempre correndo svoltai a destra per trovarmi in un vicoletto buio in salita, doveva essere dalle parti di piazza Caricamento, in cima al vicolo intravidi una figuretta ferma sotto ad un lampione, da quella distanza non potevo averne la certezza ma sapevo che era Lara.Avevo il fiatone, il cuore mi batteva a mille, non potevo continuare a correre.
La chiamai, lei si voltò e mi sorrise come la prima volta. Ma era troppo truccata, ed aveva una gonna troppo corta ed una scollatura troppo profonda.
Mi avvicinai camminando, o meglio, camminavo ma non riuscivo ad avvicinarmi, anzi la figura era sempre più lontana, ripresi a correre, anche lei si mosse verso di me, fece pochi passi, sembrava incatenata al lampione, mi tese la mano ma eravamo troppo lontani, vidi la sua bocca articolare delle parole ma non udii alcun suono, il suo viso era ora terrorizzato. Spalancò gli occhi e disse: Aiuto Capitano.
Aprii gli occhi e consultai l'ora sul cellulare 15:58, disattivai la sveglia.Il mio contatempo mentale aveva funzionato egregiamente ancora una volta. Non che fosse un dono di grande utilità, avrei preferito che so il dono di vincere al gioco o di predire il futuro ma quello mi era stato dato e quello mi tenevo, naturalmente del sogno non ricordavo nulla, se non che in qualche modo riguardava Lara.
Alle 16:30 ero al bar Centrale e cinque minuti dopo entravo nel duomo assieme a Martino.
“Il Don è a dir messa in frazione” mi stava spiegando Martino” tornerà tardi, ma tu fai come fossi a casa tua” concluse con un sorriso.
Lavorai di lena per tre ore fotografando il fotografabile.
L'enorme vantaggio della fotografia digitale era che potevi scattare una quanità enorme di immagini e decidere in un secondo tempo cosa tenere e cosa buttare
Da giovane, tra i mille mestieri tentati avevo fatto anche il fotografo ed ai tempi capitava spesso che per risparmiare su pellicola e sviluppo, si tralasciassero particolari che sarebbero risultati in seguito essenziali per la riuscita del lavoro.
Quando il Don fù di ritorno avevo terminato.
“Allora che ne pensi Capitano?” esordì
“Bellissimi, ho fatto quelli della “Virgo potens” a Genova ma questi sono molto più belli e conservati benissimo.Praticamente non necessitano di restauro, basta rifare l'impianto elettrico e pulire e ripristinare le catene di cristalli.”
“Il restauro delle parti lignee e delle dorature lo ha fatto una ditta di Torino una quindicina di anni fa, hanno fatto un ottimo lavoro, anche se ci è costato un botto, ma di elettricità non capivano un tubo quindi ho preferito soprassedere, ma ormai è giunta l'ora di provvedere.”
“Visto che si tratta solo di manutenzione ordinaria penso che dovrebbe bastare una comunicazione alla Soprintendenza senza dover istruire una pratica, sennò può scordarselo di averli pronti per Natale”
“Penso anche io” disse il Don” ho alcuni cari amici in Soprintendenza, chiederò un parere informale, se nulla osta direi che partiamo.”
“Non le ho ancora fatto il preventivo....”
“Ce la fai per Giovedì a pranzo ?”
“Ci provo” risposi.
“Provare non basta, riuscire bisogna, anche perchè ho già prenotato per le 13 alla “Baracchetta” di S. Luca, arrivederci a Giovedì.Usa la Forza Capitano” e con un sorriso da gatto del Chesire si ritirò in canonica.
“Ma guarda te” pensai “solo a me poteva capitare un prete che cita “Guerre Stellari”.
In coda al casello di Genova Ovest ripensai a Lara.
Ero sicuro di non averla mai vista, prima di quella volta al “Gran Ristoro”, oddio, sicuro è una parola grossa, io non sono assolutamente fisionomista ma un viso così lo avrei ricordato ed anche lei sembrava aver riconosciuto qualcosa in me e poi averla rivista il giorno dopo ed averla anche sognata.... anche se non ricordavo nulla del sogno ero certo che la protagonista fosse lei.
“Tipiche seghe mentali da attesa al casello” pensai.
“Come dice?” chiese il casellante.
“Nulla, mi scusi pensavo a voce alta”
Pagai e mi diressi verso casa. Passai tutta la giornata di Mercoledì a fare conti che non tornavano mai.
Le variabili erano troppe e non avevo mai affrontato un lavoro così grosso da solo.
Alla fine decisi che potevo chiedere cinquemila euro, era un prezzo molto basso ma volevo fare quel lavoro, e comunque non avevo altro all’orizzonte se non piccoli restauri e qualche riparazione.
Giovedì mattina mi svegliai all’alba e rifeci tutti i conti, avevo paura di non starci con le spese, avevo calcolato i costi come se avessi potuto svolgere il lavoro in laboratorio ma in trasferta era tutta un’ altra cosa, fra spese vive cibo e benzina ce ne sarebbero voluti almeno seimila.
Alle nove mi chiamò il Don sul telefonino “ Ciao Danilo, che ne dici di venire sù un po’ prima, così parliamo del preventivo e poi andiamo a pranzo più rilassati?”
“Certo Don, potrei farcela per le undici”
“Va bene anche mezzogiorno tanto non c’è mica molto da discutere no?”
“Ok, per mezzogiorno sono li”
“Bene, mi trovi nell’orto, a dopo”
“Non c’è molto da discutere dice lui” pensavo mentre in auto aggradivo i tornanti che mi avrebbero portato a S. “ questo lo dice lui, mi sa che invece ci sarà da discutere un bel po’”.
Ero a tre chilometri dal paese ed erano le undici e trenta, troppo in anticipo.
Accostai in una piazzola al limitare di un bosco di castagni e spensi il motore.
“Ok” mi dissi “ è ora di usare la magia, Allora destino cinico e baro : ora scendo e mi inoltro nel bosco per dieci minuti, poi torno indietro, altri dieci minuti, se trovo un fungo commestibile in questo tempo andrà tutto bene, sennò sono fregato e accetto di buon grado la sconfitta.
Ci stai? Anzi ci metto il carico a bastoni, non un fungo commestibile qualsiasi, un porcino od un ovulo.”
Lanciata la scommessa aprii la portiera e feci per scendere dall’auto, non scesi, avrei potuto schiacciarlo, a venti centimetri dall’abitacolo, occhieggiando da un ciuffo d’erba un bel porcino da un paio d’etti sembrava aspettare solo me.
“Porca vacca” pensai “ ma varrà lo stesso? La scommessa parlava di inoltrarsi nel bosco”
Per scaramanzia, dopo aver raccolto il mio tesoro feci lo stesso la passeggiata nel bosco non trovando nulla.
Mi rimisi alla guida ed a mezzogiorno meno cinque varcai il portoncino dell’orto.
Il Don mi aspettava seduto sotto una pergola, sul tavolino al suo fianco c’era una bottiglia di spumante e due flute.
“Accomodati Capitano” disse sorridendo “ ci prendiamo l’aperitivo al fresco mentre parliamo d’affari”
Stappò la bottiglia e con fare da sommelier consumato riempì i bicchieri,
brindammo e bevemmo.
“Questo lo faccio io, non ha nulla da invidiare agli champenoise più famosi”
“ Ottimo davvero” dissi “ non amo molto le bollicine ma questo è davvero buono”
“ Dunque Don, ci ho un po’ pensato”
“si, anche io”
La partita a scacchi era cominciata ma lo svolgimento era ben diverso da quello che mi sarei aspettato
“Allora Don, il punto è che non sono in grado di fare un preventivo, ma ho una soluzione alternativa” lo stavo rifacendo, stavo nuovamente navigando a vista, come al liceo quando dovevo fare il compito in classe di italiano: usavo le prime due ore per scrivere una brutta copia del testo su cui mi arrovellavo scrivendo e cancellando e riscrivendo, poi all’inizio della terza ed ultima ora, iniziavo a scrivere in bella copia un tema che non c’entrava nulla con tutto ciò che avevo scritto in brutta.
Così ora mettevo da parte tutti i calcoli che avevo fatto per proporre un’altra cosa.
“Visto che non sono in grado di quantificare la spesa direi di fare una cosa a cottimo, mi spiego: potremmo accordarci sul fatto che io mi impegno a lavorare quaranta ore a settimana e lei si impegna a corrispondermi dieci euro l’ora di paga, poi a fine mese le faccio una fattura dell’importo mensile, ed il mese dopo si ricomincia. Visto che lavorerò in chiesa le sarà facile controllare il lavoro effettivo e verificare che non mi imbosco a leggere il giornale.”
“Quindi sarebbero 1600 euro al mese, per quanti mesi all’incirca?” disse il Don con aria dubbiosa.
“Direi circa cinque mesi, più o meno” feci un rapido calcolo mentale : mille per cinque fa cinquemila; seicento per cinque tremila, cazzo! il totale era ottomila, avevo sparato troppo alto.
“Come mai un tempo così lungo?”
“beh, vede Don l’elettrificazione è relativamente semplice, ma i cristalli sono buttati su alla bell’e meglio e sono sporchissimi, andranno lavati e sicuramente molte giunte andranno rifatte è un lavoro lungo. Naturalmente cercherò di fare il più in fretta possibile, ma se le sembra troppo...”
Il Don era pensoso “Hai detto che mi farai una fattura mensile”
“Si la partita IVA non l’ho ancora chiusa”
“quindi” continuò il Don come parlasse tra se e se “quindi sui milleseicento euro ne pagherai 320 di IVA, in più avrai le spese per mantenerti qui e sul totale che incasserai dovrai pagare le imposte, giusto?”
“Giusto” risposi, non capivo dove volesse andare a parare, pensai al mio porcino abbandonato in macchina sotto il sole. Mi rivolsi mentalmente al Destino “Ehi tu, un patto è un patto, non lo scordare”
“Allora senti cosa facciamo, io ci metto il materiale, ho il conto aperto dall’elettricista, e ti corrispondo tredici euro l’ora, e tu ti impegni a finire prima possibile e nel miglior modo possibile”
“Ma Don, è troppo”
“No non è troppo, è giusto. Il preventivo migliore che mi hanno fatto è stato di 11.000 euro più IVA per sei mesi di lavoro, vengono più di tredicimila euro alla fine, con te ne spendo poco più di diecimila, vedi bene che anche io ci guadagno”
“Non fa una grinza”risposi esterefatto.
“Bene Capitano, allora alziamoci in piedi e stringiamoci la mano, è così che si firma un contratto da queste parti”
Ci alzammo e solennemente ci stringemmo la mano.
“Devo ricordarmi di baciare quel fungo” pensai.
“Ed ora” disse il Don “ In macchina, che la truppa ci starà già aspettando in trattoria”.“ se non ti dispiace andiamo con la tua auto, io se posso preferisco non guidare, prima però passiamo in canonica a prendere il vino”
“come sarebbe a prendere il vino, non andiamo in trattoria ?” commentai stupito.
“ certo che si, ma al mio vino non rinuncio, seguimi in cantina” detto questo girò langolo della canonica.
Quella parte dell'orto non la avevo ancora vista, era un terrazzamento in piano, lungo una ventina di metri e largo forse dieci, che si apriva verso sud sorretto immaginavo a valle da una massicciata.La vista era splendida ed aperta, a qualche chilometro si scorgeva la catena appenninica che si stagliava nitida contro un cielo azzurrissimo.
Tutta la superficie disponibile era coltivata ad orto: al rosso intenso dei pomodori rispondeva il verde brillante dei fagiolini, il giallo ocra dei fiori di zucchino, le multicromie dei peperoni, il viola intenso delle melanzane, più lontano, sull'orlo dello strapiombo,protette da una staccionata di legno crescevano praterie di insalata e di basilico in un tripudio di tonalità del verde, sulla destra guardando verso valle stavano le piante medicinali e gli odori ed un enorme pianta di rosmarino addossata al muro della canonica spargeva il suo profumo nell'aria soleggiata.
“che succede, ti sei incantato?” domandò il Don.
“Perbacco padre Firmino, è tutto così bello, deve darmi il permesso di fare qualche foto, i colori sono splendidi.”
“Certo, quando vorrai, ti consiglio verso sera i colori sono più vividi, ma ora vieni a darmi una mano col vino”.
Entrammo nella cantina da una porticina alta forse un metro e sessanta dipinta di azzurro incastonata fra due panche di pietra consunta, istintivamente abbassai il capo e lo tenni reclinato anche all'interno, ma non era necessario eravamo in un ampio locale sovrastato da una volta a botte sulla parete di sinistra stavano allineate cinque grotsse botti di quercia lealtre pareti erano ricoperte da scaffalature piene di bottiglie messe a riposare semisdraiate e divise in gruppi a seconda dell'annata.Al centro troneggiava un banco da lavoro in pietra con tanto di lavandino incassato affianco al banco macchine per imbottigliare tini di varie dimensioni, cantabrune ed altri vari attrezzi per la lavorazione dell'uva.
“prendi per favore quel cestello. da sei bottiglie” mi ordinò il Don mentre si aggirava fra gli scaffali.
“questa direi che ci vuole, un rosso morbido per accompagnare i primi piatti direi ce ne vorranno un paio, e questo” continuò,” per i secondi, ma mi sa che due non bastano, cosa dici: tre o quattro?”
“dipende da quanti siamo Don” risposi mentre lo seguivo col mio contenitore.
“facciamo quattro, melius abbundare quam deficere, cosomai facciamo sempre in tempo a riportarle indietro”
Mi piaceva la logica del Don, e mi piaceva la sua calma nel fare le cose.
“questo” disse indicando la bottiglia “viene da un vitigno di Bordeaux, siamo riusciti ad adattarlo alle nostre terre, sentirai che spettacolo”.
“Il cestello è pieno Don” dissi
“Bene prendine un'altro, ci mancano un po' di bollicine”
Obbedii.
Tornammo all'aperto e la luce ci aggredì subitanea, il Don estrasse dalla tonaca una grossa chiave e chiuse la porta della contina.
“hai sentito che è passato il lodo” mi disse mentre ancora mi dava le spalle.
“Ho sentito si, martedì scorso, ma tanto fanno quello che vogliono”
“già, ma perchè siamo un paese di zombie”
Il Don si sedette sulla panchetta affianco alla porta.
“vedi Danilo, non mi fa incazzare” usò proprio quel termine” che Silvio sia un delinquente, ne abbiamo avuti tanti, sia al governo che all'opposizione” annuii sedendomi sulla panca al lato opposto della porta.
“quello che non sopporto è il messaggio che comunica: siate falsi, siate furbi, passate sulla testa del vostro prossimo se ciò vi porta un vantaggio! Non è per questo che tanti ragazzi sono morti nella lotta di liberazione, non è questo che sta scritto nella nostra costituzione. Ma il paese lo segue, non aspettava che quelle parole d'ordine: vivi e lascia morire, un paese di cialtroni ha finalmente trovato la sua espressione, Il Cialtrone Massimo, Il Grande Bugiardo”.
“già” risposi “ anche se un Massimo cialtrone lo possiamo produrre anche dall'opposizione, quello che piuttosto che dire una cosa di sinistra si taglierebbe i baffetti”.
“o colerebbe a picco con tutto il suo Yacht”chiosò il prete.
“dai andiamo che deve essere ben tardi, dove hai il bolide?”
“davanti al duomo Don, ma è una vecchia Panda, altro che bolide, la chiesa non la chiudiamo?”dissi mentre uscivamo dall'orto.
“Danilo, la casa di Dio deve sempre essere aperta a chiunque voglia entrare, chissà che qualche peccatore non approfitti dell' intervallo di pranzo per parlare un po con lui”.
“vorrei poterci credere Don, ma il mio realismo me lo impedisce”
“Se non ci credono gli uomini di buona volontà allora è tutto inutile, dobbiamo credere anche per gli altri, tu da laico, io da religioso, dobbiamo credere che riusciremo a cambiare il mondo in meglio con le nostre parole e le nostre opere. C'è una vecchia storiella che mi raccontavano in seminario: il bosco sta bruciando, tuti gli animali scappano verso la radura, un passerotto vola in direzione contraria, con una goccia d'acqua nel becco, la volpe lo vede e lo apostrofa “ e tu dove stai andando non vedi che il bosco brucia ?” ed il passerotto senza smettere di battere le ali risponde “Io vado a fare la mia parte, per cercare di spegnere il fuoco”.
“si Don, è vecchia,la conoscevo anche io, ok, cerchiamo di fare la nostra parte” e sorridendo misi in moto.
Per ora la nostra parte consisteva nel riempirci la pancia, ma si sa, le vie del signore sono misteriose ed imperscrutabili. “Sei mai stato a mangiare alla “Baracchetta”?” chiese il Don mentre viaggiavamo rapidi verso S.Luca.
“No, l'ho intravista l'altro giorno quando sono andato a far la spesa, ma mi era sembrata chiusa”
“Lavorano solo alla sera, o per qualche occasione speciale, o per qualche cliente speciale” spiegò il Don.
“Capito, e noi cosa siamo, un'occasione speciale o un cliente speciale?”
“Diciamo che siamo entrambe le cose, è una vecchia storia”disse con aria miseriosa.
“adoro le vecchie storie” commentai “potrebbe raccontarmela”.
Invece di rispondermi il Don alzò un dito ed indicò fuori dal finestrino “La vedi quella cappelletta sulla curva? Se vuoi sentire la storia accosta, ormai siamo quasi arrivati e non riuscirei a raccontarla in così poco tempo”.
Fermai l’auto subito dietro la cappelletta, dove c'era una specie di parcheggio.
“La storia risale ad ormai venti anni fa, conoscerai Saro credo se hai fatto la spesa a S.Luca.”
“il sardo che fa il macellaio ed il fruttivendolo immagino, un bel tipo” risposi.
“Non solo quello, è anche il gestore della “Baracchetta”
“Caspita Don manca solo che dica messa e poi ha chiuso il cerchio, San Luca è lui.”
“Vent'anni fa faceva il camionista” continuò il Don senza commentare la mia battuta “Mezzi grossi, viaggiava tra l'Italia e la Germania, qualche volta in Francia, spesso tornava a S Luca con la motrice del Tir, si fermava qualche giorno a casa con la moglie e la figlia e poi ripartiva. Dovevi vederlo portare quel bestione, lui che pesava cinquanta chili con le scarpe, sulle nostre carrettiere andava come un razzo, guadagnava bene, la moglie arrotondava col negozio di frutta e verdura e la bambina cresceva sana e robusta erano una famiglia laboriosa e felice ma poi il diavolo ci mise la coda: la bambina si ammalò, ben presto si capì che era una grave forma di leucemia, girarono per monti e per mari per ospedali e santuari ma la risposta era sempre la medesima, era solo questione di tempo.
Saro iniziò a bere, e si sa che bere e guidare non vanno bene assieme ma per caso o per fortuna non aveva mai avuto un incidente, sino a quel Sabato.
Stava tornando da Savona dove aveva scaricato del latte in polvere portato da Colonia, il rimorchio lo aveva lasciato in porto dove lo avrebbe ripreso il lunedì per tornare in Germania.
Stava facendo buio, ma ormai era ad un solo chilometro da casa.Lo sai che l'ultimo chilometro è il più pericoloso? Si abbassa la guardia, ci si sente già con le gambe sotto il tavolo, ed invece …....”
Mi guardò con gli occhi socchiusi poi continuò
“La ricostruzione dei carabinieri fu che, completamente ubriaco aveva preso la curva troppo larga ed era andato a schiantarsi nell' unica roccia presente nel raggio di quattro chilometri. A me però Saro raccontò, in confessione, una storia molto diversa: aveva comprato a Colonia una statuina della madonna da regalare a sua figlia Margherita. Aveva parlato per tutto il viaggio con la statuina, che sembrava ascoltarlo, le aveva raccontato la storia della sua vita da quando era ragazzino in Sardegna al giorno corrente, le aveva spiegato del male di sua figlia e le aveva chiesto la grazia e come tutti i genitori aveva concluso con il classico prendi me invece che lei.
E la statuina gli aveva risposto :Saro tu sui un uomo buono e meriti il mio aiuto, io ti indicherò il male che affligge tua figlia e tu lo distruggerai.
Saro stava affrontando l'ultima curva, che lo avrebbe portato sul rettilineo che conduceva al paese, quando in mezzo alla strada comparve una figura di luce splendente con le fattezze della sua madonnina che indicava qualcosa sul lato destro della carreggiata, ed allora Saro lo vide, vide il maledetto mostro che stava uccidendo sua figlia. Premette forte il clacson, scalò la marcia e schiacciò l'acceleratore a tavoletta, la motrice scateno tutta la sua potenza, Saro diede un colpo di sterzo ed urlò tutta la sua rabbia mentre si schiantava sull'orrenda creatura distruggendola.”
Il volto del Don era teso, gli occhi fiammeggiavano, mi fece cenno di scendere, aggirammo la cappelletta, in realtà la costruzione era semplicemente una struttura che inglobava un pezzo di roccia alto un paio di metri nel quale era infisso il paraurti di un TIR, sul culmine della roccia splendeva una madonnina.
“Naturalmente gli tolsero la patente, e quindi la sua fonte di reddito, allora gli proposi di rilevare la “Baracchetta”, che era chiusa da anni, e di fare il ristoratore. Gli prestai una ventina di milioni, che mi ha già restituito da tempo, e gli feci un po' di pubblicità.
Ora le cose gli vanno bene ma non si è scordato del vecchio prete che ha creduto in lui, quindi diciamo che sono un cliente speciale”
“E la figlia Don?”chiesi con un filo di voce.
“ Margherita ormai è grande, ma la vedrai con i tuoi occhi fra poco, è lei che serve ai tavoli e direi che è la più bella cameriera della vallata”.
“ma e la leucemia?”
“tu credi nei miracoli?”
“no Don, purtroppo no”
“E’ un vero peccato, comunque Saro e la sua famiglia ci hanno creduto, per questo hanno costruito questa cappelletta”
“e quindi?”
“E quindi ci dobbiamo sbrigare, che siamo in ritardo marcio e la colpa è tua che mi fai parlare”
“mia? Ma Don....” inutile discutere con uno così, risalii in macchina.
Non guardai la madoninna, sapevo che se lo avessi fatto mi avrebbe sorriso, e per ora volevo rimanere da questa parte della realtà, ma per quanto tempo ci sarei riuscito?
La squadra ci attendeva in ordine sparso nel parcheggio davanti alla trattoria.
“alla buonora,iniziavamo a pensare che vi avessero mangiato i lupi” disse un signore molto distinto sulla settantina, alto, magro, con una chioma di capelli bianchi tagliati cortissimi.
“questo è Gianni” disse il Don “il tuo sergente di ferro, e questa è la truppa: Sara, moglie di Gianni e grande cuoca, costoro invece sono Leonardo, bancario in pensione e sua moglie Giovanna titolare della migliore, ed unica, merceria del paese ed infine le due signore sono Sandra parrucchiera per signora ed Anna insegnante di italiano alla scuola media, sino allo scorso anno, ed ora felicemente in pensione e questo è Martino, barista, gazzetta ufficiale del paese e mio personale consigliere ma credo che già vi conosciate”disse il Don ridendo.
“Molto piacere di fare la vostra conoscenza, io sono Danilo e devo dire che sono molto poco fisionomista e negato per i nomi, quindi mi scuserete se farò un po' di confusione” stavo per dire “ Si sbalio mi corigerete” ma a ben pensarci non era il contesto giusto.
In quel momento apparve nel pergolato della trattoria Calamity Jane, che disse :”Allora ciurma, volete venire a tavola che gli antipasti son già serviti?”
Mi avvicinai al Don e gli chiesi sottovoce “ ma quello splendore di fanciulla vestita da cowgirl è Margherita?”
“ e chi sennò” rispose il Don ridendo sotto i baffi.
Era una bellissima rossa sulla trentina, fasciata in un paio di jeans neri che mettevano in risalto le lunghe gambe, la camicetta bianca, abbondantemente scollata, spumeggiava sotto il gilet aderentissimo ed ovviamente nero. Completavano la mise un paio di stivali da cavallerizza ed uno Stetson sempre nero, che le pencolava sulle spalle.L'effetto complessivo era notevole, ed incredibilmente lontano dal kitch che la somma dei capi avrebbe dovuto produrre.
“Mi sa che dovrò ricredermi sui miracoli” mormorai accendendomi una sigaretta.
“non è mai troppo tardi figliuolo, e spegni quella cicca che fra poco si mangia” disse il prete spingendomi dentro il locale.
La “Baracchetta” era una vecchia scuderia riadattata, una strutura quadrata di circa dodici metri per dodici costruita con mattoni pieni, il perimetro, quello che immaginavo dovesse ospitare un tempo le poste per i cavalli, era coperto per circa due metri e mezzo da un tetto di coppi rossi,spiovente verso l'interno e sorretto da una serie di esili colonne di mattoni, il lato a nord dal quale eravamo entrati era stato in parte chiuso con un muro ed ospitava le cucine ed i servizi, sugli altri tre lati erano disposti tavoli massicci apparecchiati con tovaglie di cotone pesante a scacchi bianchi e rossi. Lo spazio che rimaneva al centro, un'area di circa sette metri per sette, era sovrastato da una pergola su cui correvano viticci di uva fragola. Sotto la pergola ci attendeva il nostro tavolo già imbandito .
Fermai l’auto subito dietro la cappelletta, dove c'era una specie di parcheggio.
“La storia risale ad ormai venti anni fa, conoscerai Saro credo se hai fatto la spesa a S.Luca.”
“il sardo che fa il macellaio ed il fruttivendolo immagino, un bel tipo” risposi.
“Non solo quello, è anche il gestore della “Baracchetta”
“Caspita Don manca solo che dica messa e poi ha chiuso il cerchio, San Luca è lui.”
“Vent'anni fa faceva il camionista” continuò il Don senza commentare la mia battuta “Mezzi grossi, viaggiava tra l'Italia e la Germania, qualche volta in Francia, spesso tornava a S Luca con la motrice del Tir, si fermava qualche giorno a casa con la moglie e la figlia e poi ripartiva. Dovevi vederlo portare quel bestione, lui che pesava cinquanta chili con le scarpe, sulle nostre carrettiere andava come un razzo, guadagnava bene, la moglie arrotondava col negozio di frutta e verdura e la bambina cresceva sana e robusta erano una famiglia laboriosa e felice ma poi il diavolo ci mise la coda: la bambina si ammalò, ben presto si capì che era una grave forma di leucemia, girarono per monti e per mari per ospedali e santuari ma la risposta era sempre la medesima, era solo questione di tempo.
Saro iniziò a bere, e si sa che bere e guidare non vanno bene assieme ma per caso o per fortuna non aveva mai avuto un incidente, sino a quel Sabato.
Stava tornando da Savona dove aveva scaricato del latte in polvere portato da Colonia, il rimorchio lo aveva lasciato in porto dove lo avrebbe ripreso il lunedì per tornare in Germania.
Stava facendo buio, ma ormai era ad un solo chilometro da casa.Lo sai che l'ultimo chilometro è il più pericoloso? Si abbassa la guardia, ci si sente già con le gambe sotto il tavolo, ed invece …....”
Mi guardò con gli occhi socchiusi poi continuò
“La ricostruzione dei carabinieri fu che, completamente ubriaco aveva preso la curva troppo larga ed era andato a schiantarsi nell' unica roccia presente nel raggio di quattro chilometri. A me però Saro raccontò, in confessione, una storia molto diversa: aveva comprato a Colonia una statuina della madonna da regalare a sua figlia Margherita. Aveva parlato per tutto il viaggio con la statuina, che sembrava ascoltarlo, le aveva raccontato la storia della sua vita da quando era ragazzino in Sardegna al giorno corrente, le aveva spiegato del male di sua figlia e le aveva chiesto la grazia e come tutti i genitori aveva concluso con il classico prendi me invece che lei.
E la statuina gli aveva risposto :Saro tu sui un uomo buono e meriti il mio aiuto, io ti indicherò il male che affligge tua figlia e tu lo distruggerai.
Saro stava affrontando l'ultima curva, che lo avrebbe portato sul rettilineo che conduceva al paese, quando in mezzo alla strada comparve una figura di luce splendente con le fattezze della sua madonnina che indicava qualcosa sul lato destro della carreggiata, ed allora Saro lo vide, vide il maledetto mostro che stava uccidendo sua figlia. Premette forte il clacson, scalò la marcia e schiacciò l'acceleratore a tavoletta, la motrice scateno tutta la sua potenza, Saro diede un colpo di sterzo ed urlò tutta la sua rabbia mentre si schiantava sull'orrenda creatura distruggendola.”
Il volto del Don era teso, gli occhi fiammeggiavano, mi fece cenno di scendere, aggirammo la cappelletta, in realtà la costruzione era semplicemente una struttura che inglobava un pezzo di roccia alto un paio di metri nel quale era infisso il paraurti di un TIR, sul culmine della roccia splendeva una madonnina.
“Naturalmente gli tolsero la patente, e quindi la sua fonte di reddito, allora gli proposi di rilevare la “Baracchetta”, che era chiusa da anni, e di fare il ristoratore. Gli prestai una ventina di milioni, che mi ha già restituito da tempo, e gli feci un po' di pubblicità.
Ora le cose gli vanno bene ma non si è scordato del vecchio prete che ha creduto in lui, quindi diciamo che sono un cliente speciale”
“E la figlia Don?”chiesi con un filo di voce.
“ Margherita ormai è grande, ma la vedrai con i tuoi occhi fra poco, è lei che serve ai tavoli e direi che è la più bella cameriera della vallata”.
“ma e la leucemia?”
“tu credi nei miracoli?”
“no Don, purtroppo no”
“E’ un vero peccato, comunque Saro e la sua famiglia ci hanno creduto, per questo hanno costruito questa cappelletta”
“e quindi?”
“E quindi ci dobbiamo sbrigare, che siamo in ritardo marcio e la colpa è tua che mi fai parlare”
“mia? Ma Don....” inutile discutere con uno così, risalii in macchina.
Non guardai la madoninna, sapevo che se lo avessi fatto mi avrebbe sorriso, e per ora volevo rimanere da questa parte della realtà, ma per quanto tempo ci sarei riuscito?
La squadra ci attendeva in ordine sparso nel parcheggio davanti alla trattoria.
“alla buonora,iniziavamo a pensare che vi avessero mangiato i lupi” disse un signore molto distinto sulla settantina, alto, magro, con una chioma di capelli bianchi tagliati cortissimi.
“questo è Gianni” disse il Don “il tuo sergente di ferro, e questa è la truppa: Sara, moglie di Gianni e grande cuoca, costoro invece sono Leonardo, bancario in pensione e sua moglie Giovanna titolare della migliore, ed unica, merceria del paese ed infine le due signore sono Sandra parrucchiera per signora ed Anna insegnante di italiano alla scuola media, sino allo scorso anno, ed ora felicemente in pensione e questo è Martino, barista, gazzetta ufficiale del paese e mio personale consigliere ma credo che già vi conosciate”disse il Don ridendo.
“Molto piacere di fare la vostra conoscenza, io sono Danilo e devo dire che sono molto poco fisionomista e negato per i nomi, quindi mi scuserete se farò un po' di confusione” stavo per dire “ Si sbalio mi corigerete” ma a ben pensarci non era il contesto giusto.
In quel momento apparve nel pergolato della trattoria Calamity Jane, che disse :”Allora ciurma, volete venire a tavola che gli antipasti son già serviti?”
Mi avvicinai al Don e gli chiesi sottovoce “ ma quello splendore di fanciulla vestita da cowgirl è Margherita?”
“ e chi sennò” rispose il Don ridendo sotto i baffi.
Era una bellissima rossa sulla trentina, fasciata in un paio di jeans neri che mettevano in risalto le lunghe gambe, la camicetta bianca, abbondantemente scollata, spumeggiava sotto il gilet aderentissimo ed ovviamente nero. Completavano la mise un paio di stivali da cavallerizza ed uno Stetson sempre nero, che le pencolava sulle spalle.L'effetto complessivo era notevole, ed incredibilmente lontano dal kitch che la somma dei capi avrebbe dovuto produrre.
“Mi sa che dovrò ricredermi sui miracoli” mormorai accendendomi una sigaretta.
“non è mai troppo tardi figliuolo, e spegni quella cicca che fra poco si mangia” disse il prete spingendomi dentro il locale.
La “Baracchetta” era una vecchia scuderia riadattata, una strutura quadrata di circa dodici metri per dodici costruita con mattoni pieni, il perimetro, quello che immaginavo dovesse ospitare un tempo le poste per i cavalli, era coperto per circa due metri e mezzo da un tetto di coppi rossi,spiovente verso l'interno e sorretto da una serie di esili colonne di mattoni, il lato a nord dal quale eravamo entrati era stato in parte chiuso con un muro ed ospitava le cucine ed i servizi, sugli altri tre lati erano disposti tavoli massicci apparecchiati con tovaglie di cotone pesante a scacchi bianchi e rossi. Lo spazio che rimaneva al centro, un'area di circa sette metri per sette, era sovrastato da una pergola su cui correvano viticci di uva fragola. Sotto la pergola ci attendeva il nostro tavolo già imbandito .
“Allora” disse il Don, sedendosi a capotavola ed indicandomi “ il nostro ospite va all’altro capotavola, tutti gli altri dove credono”.
In un attimo la squadra prese posto, io mi avviai al mio ma era già occupato da un gattone nero accoccolato sulla mia sedia che mi quardava con i suoi occhi gialli, come a dire: questo posto è mio, e per inciso, tu chi saresti?
Ci guardammo a lungo, come si guarda qualcuno, forse un vecchio amico ritrovato, prima con pudore, poi lentamente come se dai meandri dei nostri ricordi affiorasse una qualche riminescenza, con interesse, alla fine scese dalla sedia e come fui seduto mi saltò sulle ginocchiacon la coda alta rullando.
Lo accarezzai piano sulla testa.
“Vedo che hai fatto amicizia con Mauri” disse Calamity Jeane, comparendo alle mie spalle.
“Mauri ?” dissi ” bel nome, diminutivo di Maurizio?”
“no cognome di laziale” disse chinandosi su di me.
Ora io credo di essere un uomo di mondo, anche se non ho fatto il militare a Cuneo, come dice De Curtis, però il suo fiato caldo sul collo e la visione del suo seno a dieci centimetri dal mio viso non mi lasciava indifferente.
“Credo di non aver capito” balbettai.
“Se vuoi ti spiego” disse con la voce di Jessica Rabbit.
“Spiega” implorai
“Ma prima prendiamo le ordinazioni, no. Senno il don si incazza” mi disse carezzandomi la testa.
Mi resi conto di non essere affatto un uomo di mondo, era calato uno strano silenzio e tutti ci guardavano con aria interrogativa.
“Maggy non irretire il nostro restauratore, siamo qui per mangiare non per flirtare” disse il don.
Margherita si allontanò e iniziò a prendere le ordinazioni.
Mauri ronfava sulle mie ginocchia ed io mi chiedevo se non mi fossi innamorato.
Mi risposi di no, volevo solo trovare il modo di parlare a quattrocchi con lei, per chiederle di Mauri ovviamente.
Il pranzo scorreva sicuro su binari collaudati.
Devo dire che dai Plin, figli minori in dimensione, ma non certo in sapore, dei tortellini, al misto di carni arrostite, servito su una piastra di ghisa fumante il menù si era dimostrato ottimo, ed i vini che il don andava via via stappando si sposavano alla perfezione con i piatti.
Ero in una situazione di beatitudine, avevo un buon lavoro, tutti mi stimavano, a prescindere devo dire, ma così era e non ultimo, Margerita ad ogni passaggio, mentre serviva a tavola mi stilettava sguardi che, anche a fargli la tara, avevano un unico significato.
Ora, io amavo mia moglie, mio figlio e la mia famiglia era il mio mondo, avevo 53 anni, credevo di essere in possesso di tutte le mie facoltà mentali, possibile che potessi immaginare una storia con la trentenne Margherita? No mi risposi, ma che cazzo vai a pensare.
Quando però mi si sedette sulle ginocchia e mi disse all’orecchio con la sua voce roca : Allora vuoi sapere perchè il gatto si chiama Mauri ?
Pensai: si voglio saperlo, ma non qui.
“si, mi piacerebbe saperlo” dissi.
“si, ma non qui” disse lei.
Patatrac.Mi resi conto di non essere affatto un uomo di mondo, era calato uno strano silenzio e tutti ci guardavano con aria interrogativa. “Maggy non irretire il nostro restauratore, siamo qui per mangiare non per flirtare” disse il don. Margherita si allontanò e iniziò a prendere le ordinazioni. Mauri ronfava sulle mie ginocchia ed io mi chiedevo se non mi fossi innamorato. Mi risposi di no, volevo solo trovare il modo di parlare a quattrocchi con lei, per chiederle di Mauri ovviamente. Il pranzo scorreva sicuro su binari collaudati. Devo dire che dai Plin, figli minori in dimensione, ma non certo in sapore, dei tortellini, al misto di carni arrostite, servito su una piastra di ghisa fumante il menù si era dimostrato ottimo, ed i vini che il don andava via via stappando si sposavano alla perfezione con i piatti. Ero in una situazione di beatitudine, avevo un buon lavoro, tutti mi stimavano, a prescindere devo dire. Quando però mi si sedette sulle ginocchia e mi disse all’orecchio con la sua voce roca : Allora vuoi sapere perchè il gatto si chiama Mauri ? Pensai: si voglio saperlo, ma non qui. “si, mi piacerebbe saperlo” dissi. “si, ma non qui” disse lei. Patatrac. Ogni essere umano ha un limite, una specie di freno a mano che tira quando è vicinissimo al burrone. Cercai di tiralo, “Non qui e non ora, visto che a quanto pare sono l’ospite d’onore” dissi “Certo, quando vorrai purchè sia presto, io tia aspetterei per sempre, ma giustamente ci sono delle regole.” Sarà stato il vino del don, o l’aria della campagna ma mi sentivo la testa vuota, ero stato invitato per presentarmi alla squadra per un lungo lavoro e mi stavo comportando come un cretino infatuato di una donna che conoscevo da un ora. Caspita non potevo essere così ubriaco. Cercai di essere coerente, rispondevo alle domande ed alle volte alle risposte, la platea sembrava entusiasta della mia preparazione nel merito. Margherita era assente, all’inizio fu un sollievo, potevo parlare con i committenti senza distrazioni, a poco a poco divenne un limite, avrei voluto vederla, ma non potevo certo sciogliere il gruppo per cercarla. Ormai era pomeriggio, avevamo mangiato e bevuto abbondantemente, il don mi si avvicinò, mi prese per un braccio e mi portò fuori, sull’aia. “Danilo,” mi disse “cosa hai capito ?” Avevo la testa che mi ronzava, pensavo a Margherita, pensavo al lavoro, e pensavo che ero capitato in wonderland “non lo sò don, credo di aver capito meno di nulla” Il don parlò con la voce delle omelie:“Danilo, ci sono luoghi fuori dallo spazio, e spazi fuori dal tempo, se riusciamo a tenere i confini ce la faremo”. Devo dire che non capii il senso del discorso perchè, essendo un uomo, ogni mio senso era puntato verso Margherita. Ad un certo punto si capì che la riunione era sciolta e che si tornava a casa.
inedita diritti riservati in base alla legge
n° 633 del 22 aprile 1941 n° 537
L’altra seraun amica, dopo aver letto un mio racconto on line, mi ha scritto: “ Bello, ma toglimi una curiosità, perchè scrivi”.
Devo dire che sono rimasto basito dalla domanda diretta, ma essendo in chat ho abbozzato una risposta.
“ Perchè mi piace sopratutto, perchè credo di avere qualcosa da comunicare agli altri, un’emozione, una sensazione, un sentimento, alle volte, e me ne vergogno, una morale”
Risposta “ma quanto ti rende la cosa, nel senso finanziario ?”
Risposta mia, molto sbigottito “nel senso finanziario? Nulla nessuno mi pubblica. Quindi...”
Pausa.
Poi la domanda che genera questo scritto..” scusa ma è faticoso?”
Rispondo sereno e un pò scrittore “ si molto, non sai quanto”
“ ma allora sei un pirla, chi te lo fa fare, te l’ha ordinato il medico?”
Riaspondo si alla prima affermazione e no alla seconda domanda, così manteniamo le pari opportunità.
Poi, il cielo noturno si apre ed una luce dolce mi avvolge, ed una voce da lontano mi suggerisce, dai diglielo, spiegaglielo, un leggero vento scompiglia i capelli che non ho. Poi buio, ad un certo punto vedo John Belushi che mi indica e dice” Lui ha visto la luce, LUI HA VISTO LA LUCE ! a quel punto sò di aver avuto l’illuminazione.
Infatti i quattro lampioni nella piazza sotto casa mia si accendono, cosa inusuale visto che non c’è alcuna piazza sotto casa mia.
Decido di rispondere, la mia voce arriva da lontano, andrà lontano, ma sbattendo contro un paracarro a forma di dalema, andrà lontano in una direzione sconosciuta, Proxima centauri? Forse, ma non divaghiamo che di dottor Divago abbiam piene le bisacce.
“ Vedi io scrivo perchè mi piace, e perchè facendolo non faccio male a nessuno, vero è fatica.
Come quella dell’impiegato che dopo una settimana di lavoro, la domenica inforca la bici ed affronta il passo del Faiallo.
Come quella del commerciante che la sera dopo aver chiuso bottega va a fare lezione di Salsa
Come quella dell’insegnante che dopo una giornata di scuola và all’orto botanico a parlare con le piante”
“ok, ho capito il concetto” mi interrompe lei.
Peccato, avevo ancora un mucchio di categorie e di hobby da citare ma l’ultimo dovevo dirlo.
“Come il pensionato che si alza alle sei del mattino per andare a funghi rischiando dopo dieci passi di cadere in un burrone”
“non mi hai convinto” rispose “ fare tanta fatica per non ricavare nulla, forse due funghi, la fatica deve portare ricchezza, sennò è inutile, non ne vale la pena”
“Ti faccio un ultimo esempio, pensa che fatica fare l’amore, finisci che sei sudato, ansimante, svuotato, stanco morto e se non sei una prostituta neppure ti pagano.
Non ne vale la pena vero?”
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Capuccetto rosso reloaded “Capuccetto Rosso” disse la mamma “porta questa torta, fatta con le mie mani e con le favolose buste Elah, alla nonna”
“Si mamma”rispose Capuccetto.
“Ma ricorda” aggiunse la mamma con cipiglio severo “di non passare nel bosco, pare ci sia un ferocissimo lupo che divora chiunque gli capiti a tiro”
“certo mamma “ rispose Capuccetto e si avviò.
Non sarebbe passata nel bosco neppure se l’avessero costretta, vero la strada era più breve, ma talmente sconnessa che con avrebbe potuto farcela neppure con un tacco 6, figuriamoci col tacco 12 che portava abitualmente, e poi nel bosco non c’era campo per il cell, ed era pieno di rovi che non aspettavano altro che smagliarle le calze nuove. No, fece il giro lungo, che tra l’altro le permetteva di guardare le vetrine del Corso, ed arrivò sana e salva a casa della nonna.
La nonna apprezzo molto la torta che divise con la nipotina mentre assieme guardavano un interessantissimo programma di scazzi anche violenti in tv.
La nonna parlava spesso con la conduttrice o con gli ospiti, Capuccetto osservava assorta le mosse e le faccette della condutrice, pensando che fra qualche anno sarebbe stata millemila volte meglio di lei, ed intanto si allenava a riprodurle.
Stava calando la sera e Capuccetto si congedò.
La nonna le disse “Ciao tesorino, ricordati di non passare nel bosco...”
“Si me lo ha detto la mamma, pare ci sia un lupo”
Capuccetto tornò a casa sana e salva, gli anni passavano e nonostante i mille provini e parecchie marchette non riuscì ad entrare nel dorato mondo della televisione.
Un giorno trovò un onesto giovine che diceva di amarla, tanto glielo disse che alla fine lo sposò.
Trovarono un bell’appartamento in periferia, due camere con angolo cottura e fermata dell’autobus sotto casa.
L’autobus passava tenendo conto di complicatissime congiunzioni astrali ma Capuccetto era felice, aveva scoperto una società di prestiti che le finanziava tutto, tv computer, I pod, I pad, telefonino e chissà cos’altro, ma lei era una donna modesta ed altro non le serviva.
Essendo a nord di Pantelleria, ed adirittura nella zona nord di Trapani votava convinta per la lega nord, come le aveva suggerito il marito.
Nel frattempo era nata sua figlia, che dopo lunghe discussioni familiari fu chiamata Capuccetto rosso , la mamma avrebbe voluto una Deborha, non capendo bene la posizione delle lettere in un nome proprio,la nonna spingeva per Samantha palesando un vizio familiare, il padre propose Maria ma fu subito messo in minoranza, ma questi sono particolari privi di importanzha vedi come è facile mettere un h a casaccio?
Tutto sembrava andare a gonfie vele quando il marito si ammalò di leucemia.
Sfiga volle che si fosse in piena spending review, quindi dopo una trafila infinita il povero cristo morì proprio il giorno in cui finalmente gli fu assegnato un posto in ospedale.
La mamma Capuccetto, visto che non sapeva fare nulla si dedicò al mestiere più antico del mondo, traendone sostentamento e raramente divertimento.
Un giorno chiamo la figlia e le disse “porta questa torta, fatta con le mie mani e con le favolose buste Elah, alla nonna” “Si mamma”rispose Capuccetto.
“Ma ricorda” aggiunse la mamma con cipiglio severo “di non passare nel bosco, pare ci sia un ferocissimo lupo che divora chiunque gli capiti a tiro”
“certo mamma “ rispose Capuccetto e si avviò.
Mentre camminava per le luride strade della periferia dentro di se pensava “forse mi conviene tagliare per il bosco, qui c’è una puzza insopportabile e girano bande di sciamannati, nel bosco per lo meno si respira e sto lupo vuoi che aspetti proprio me?”
Così prese per il bosco, e più vi si addentrava, più si sentiva leggera e tonica, anche il cervello sembrava girare a mille, stimolato dagli odori, i colori, le mille variazioni di prospettiva.
Ovviamente incontrò il Lupo.
Si guardarono a lungo negli occhi, sospettosi.
“Quindi sei finalmente arrivata” esordì il Lupo.
Capuccetto non rispose, rifletteva, il Lupo a guardarlo bene era vecchio e canuto, ansimava non di desiderio ma di stanchezza.
Alla fine rispose “Mi aspettavi? Io non ti conosco.”
“Hai mai voluto essere libera come un uccello su un campo di grano? Hai mai voluto che tutti avessero il giusto secondo i propri bisogni? Hai mai voluto che la giustizia trionfasse sul malaffare?”
Capuccetto rimase interdetta, non si era mai posta il problema ma ora che gli era porto...
“Si” rispose
“Allora mi conosci”
“Ma cazzo” disse Capuccetto, che era una bambina educata, ma quando cè vò ce vò “Allora perchè tutti hanno paura di te ed evitano il bosco?”
“Sai, non vorrei dire una banalità, ma presto morirò e spero che tu possa portare avanti questo pensiero”
“Quale” rispose Capuccetto iniziando a pensare che un lupo che parla forse non è proprio nella norma.
“un pensiero molto semplice, tutti evitano ciò che sembra pericoloso, che può creare dei problemi, che può sconvolgere la loro routine.Non si rendono conto che così facendo lasciano campo libero a chi potrà distruggere la loro vita, è sempre successo e sempre succederà” il Lupo ansimava, Capuccetto si accoccolò a terra e prese la sua testa in grembo.
“Vai avanti”gli ordinò mentre cercava di trattenere le lacrime.”vai avanti”
“piccola umana, io ti sembro in punto di morte,e lo sono, ma potrei fare di te un solo boccone se continui ad essere così insolente”
“lo sò scemo di un Lupo scemo” Il Lupo le leccò le guance tergendo le lacrime.
“Il messaggio è molto semplice piccola, osa, cerca nella foresta, rimani nella natura, ma soprattutto, fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te.
Capuccetto capì e strinse forte a se il Lupo, sarebbe andata per montie per valli a portare il suo messaggio ma ora sarebbe rimasta ancora vicina al suo maestro, ad assisterlo nel passaggio.
Poggiò la sua guancia sul muso caldo.
Il Lupo si divincolò, in un attimo fu sulle quattro zampe ringhiante.
Capuccetto si alzò stupita e si avvicinò.
La raffica di pallettoni da cinghiale li colpì entrambi.